
Foto di Carlo Marino
“La corruzione spuzza” (2017), il titolo del libro di Raffaele Cantone e Francesco Caringella riprende una frase pronunciata il 21 marzo 2015 da Papa Francesco durante una visita ai ragazzi di Scampia: «Un cristiano che fa entrare dentro di sé la corruzione non è cristiano», ha detto il Papa, riportando alla semplice e cruda realtà dei fatti un fenomeno che, seppur al centro di continue analisi, ricerche, studi di settore, sembra impossibile da debellare completamente dalla vita istituzionale e economica del nostro Paese.
Scrivono Cantone e Caringella che la corruzione del Terzo millennio, come mostrano le inchieste su «Mafia Capitale» e sul Mose, «è diversa dal passato, in quanto si è eretta a sistema pervasivo, tentacolare, spietato. Non più solo passaggi di denaro, ma giri vorticosi e smaterializzati di favori, piaceri, collusioni. Non più il classico accordo privato fra corruttore e corrotto, ma la creazione di un’organizzazione criminale attraverso cui politici, burocrati, imprenditori e mafiosi perseguono gli stessi obiettivi».
A tutto questo non fa fronte, purtroppo, un’adeguata consapevolezza collettiva della necessità di reagire in prima persona, che dovrebbe invece essere fortemente sentita da ogni cittadino, perché un appalto truccato non inficia solo la trasparenza della pubblica amministrazione, ma incide sulle tasse che paghiamo, sul nostro lavoro, sulle nostre comunità: «quel denaro rubato è anche nostro – scrivono Cantone e Caringella – perché la cosa pubblica è una ricchezza comune, e la sua gestione immorale danneggia tutti, privandoci di risorse, opportunità e prospettive».
«I soldi intascati dai corrotti significano opere pubbliche interminabili, edifici che crollano alla minima scossa di terremoto, malasanità, istruzione al collasso, cervelli in fuga, giustizia e politica inquinate, ambiente danneggiato». E quindi è un dovere civile di ogni cittadino lottare contro queste prassi incancrenite e pretendere il rispetto delle regole. Ma perché questo sia possibile, occorre un’ampia opera di informazione e educazione collettiva alla legalità, quella che tante associazioni ed enti praticano quotidianamente sul territorio, e che deve essere sostenuta e incoraggiata dalle istituzioni. Solo così si può attuare quel mutamento culturale che sta alla base di una vera rinascita civile.
La corruzione è un fenomeno antico
Cicerone, nella sua orazione Contro Verre, scrisse che «è con la corruzione che muore uno Stato. Il sottrarre ad altri per sé, per i propri interessi e la per la propria fazione, è la cosa più nociva e contraria alla salute dello Stato, più che la guerra e la carestia». Ecco, in queste parole si condensa il senso della corruzione come nemica del bene comune; non solo perché essa presuppone un sistema clientelistico, una politica inquinata e una società iniqua, ma perché, soprattutto, la sua esistenza mette in crisi il necessario rapporto di fiducia che sussiste – che dovrebbe sussistere – tra i cittadini e lo Stato.
Insisto molto sul tema della fiducia e vorrei a tale proposito ricorrere ancora a una citazione che ci riporta agli albori della democrazia mondiale, all’Atene del V secolo a.C., quando nell’Apologia di Palamede il sofista Gorgia individuava nella fiducia un bene la cui perdita costituisce un danno irreparabile: «Uno che ha perduto le ricchezze o è stato privato del potere o è stato bandito dalla patria, può sempre ritornare in possesso di questi beni; colui che, invece, ha perduto la fiducia altrui, non può più riacquistarla».
La fiducia si basa principalmente – e naturalmente – sulla percezione di una possibile realizzazione delle aspettative: l’unico genere di società in grado di rendere felici i suoi cittadini è infatti la repubblica virtuosa, la res pubblica ciceroniana, nella quale tutte le leggi sono rivolte al bene pubblico e i governanti agiscono nell’interesse del popolo. La repubblica ‘virtuosa’ è tale in quanto edificata su una serie di valori condivisi e rispettati. Il rischio insito in una perdita di fiducia, dunque, è quello di rendere difficile, o anche impossibile, quei processi di identificazione dei rappresentati con i rappresentanti che sono stati da loro direttamente o indirettamente delegati a gestire la cosa pubblica; di rendere difficile o impossibile che le forze positive che vengono, per così dire, dal basso, vale a dire dall’impegno individuale e collettivo dei singoli e dei gruppi, possano incontrarsi con le responsabilità di chi ha il compito istituzionale di gestire l’ambito pubblico nell’interesse della comunità.
Vincenzo Cuoco scrisse nel 1801, nel suo Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799: «Io giudico della corruzione di un governo dal numero di coloro che domandano un impiego non solo per servire la res publica, ma solo per vivere: l’onesto cittadino non dovrebbe pensare a servir la patria se non dopo di avere già onde sussistere. Roma, nell’antica santità de’ suoi costumi, non concedeva ad altri quest’onore. Così il disordine dell’amministrazione, gli interessi privati sono la più grande cagione di pubblica corruzione». È dunque evidente, allora come oggi, la strettissima connessione esistente tra la corruzione e il cattivo funzionamento degli apparati pubblici e deiservizi per i cittadini, perché un dipendente pubblico infedele non fa che inficiare ulteriormente, con le sue azioni, l’immagine dell’amministrazione pubblica, contribuendo a minare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Occorre dunque, oggi più che mai, rifondare l’etica degli incarichi pubblici, con uno sforzo certamente rilevante, ma che i tempi che stiamo vivendo impongono come non più rinviabile.
Collegamento del tema ad attività dell’Istituto
Nel 1925, quando Giovanni Gentile definiva la missione dell’Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, pose al centro dei suoi compiti la formazione di una nuova classe dirigente che sapesse fare della tutela della cultura e dell’identità nazionale il fulcro della sua azione, accanto a un alto sentimento della responsabilità per la cosa pubblica e alla capacità di interpretare le sfide di un mondo nuovo. Da allora la missione non è mai stata disattesa, e l’analisi e lo studio dei fenomeni corruttivi in Italia e nel mondo ha trovato ampio spazio sia sulle pagine delle enciclopedie cartacee sia, più di recente, sul portale Treccani.it.
Circa due anni fa, nel giugno 2015, si è tenuto nella sede dell’Istituto un importante convegno dal titolo Corruzione e Sistema Istituzionale, durante il quale Raffaele Cantone, Marco d’Alberti e altri studiosi hanno indagato a fondo i mutamenti del fenomeno corruttivo in Italia negli ultimi anni; mentre il saggio di Marco D’Alberti sulla corruzione, pubblicato nello stesso anno sulla IX Appendice alla Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti, pone l’accento non tanto sulla cosiddetta bribery (ossia il pagamento di una bribe, usualmente una somma di denaro, versata di regola a funzionari dell’amministrazione pubblica, o a politici, o a giudici, in cambio di un beneficio), quanto su strumenti corruttivi più sottili e subdoli che sono appunto quelli dei personal contacts, «i rapporti di conoscenza con coloro che sono investiti di poteri di decisione, nel settore pubblico o privato per ottenere posti di lavoro, incarichi o altri vantaggi», e quelli messi in campo dalle stesse amministrazioni pubbliche, che causano una drammatica degenerazione del sistema istituzionale, e il cui esempio principe è la produzione di una legislazione volutamente sovrabbondante e oscura: d’altronde, già Tacito aveva scritto «corruptissima republica plurimae leges». Nella seconda parte del saggio, D’Alberti si concentra sui possibili rimedi, dando ampio spazio all’attività dell’ANAC e concludendo che solo con una seria lotta contro i meccanismi legislativi che favoriscono la corruzione si potranno ottenere «risultati efficaci e duraturi nella lotta contro una delle patologie più gravi del nostro tempo».
Collegamento del tema a esperienza istituzionale
Durante i dieci mesi nei quali ho ricoperto la carica di Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, nei moltissimi incontri, nelle numerose esperienze di conoscenza con tante realtà del nostro Paese che mi sono state offerte dal mio ruolo, mi sembra di aver colto, soprattutto da parte dei giovani, una forte volontà di impegnarsi per diffondere la cultura della legalità e combattere contro qualsiasi forma di malaffare, di connivenza e di criminalità. Ho avuto modo di conoscere il lavoro e l’impegno di tante persone e associazioni che quotidianamente, su tutto il territorio nazionale, si spendono per sottrarre ai sistemi clientelistici il controllo dei beni comuni, degli spazi e dei servizi pubblici e per garantire il rispetto dell’articolo 3 della Costituzione, che impegna lo Stato a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Ma deve essere chiaro che la corruzione non significa solo malaffare in politica e nella pubblica amministrazione: l’illegalità deve essere combattuta in tutte le sue forme, a partire dall’evasione fiscale, ancora troppo diffusa, e che si può vincere davvero soltanto con una battaglia culturale che sappia insegnare ai cittadini il valore della responsabilità collettiva verso lo Stato.
Solo se ogni cittadino, nel suo ambito professionale, nella sua vita quotidiana, nelle sue relazioni sociali, saprà schierarsi in modo deciso contro qualsiasi forma di connivenza, potremo raggiungere l’obiettivo di una società più sicura e più equa, in cui non valgono i rapporti di forza e in cui nessuno viene lasciato indietro.
Ma, perché nessuno venga lasciato indietro, è necessario che anche la macchina amministrativa sia riorganizzata e resa più efficiente e più vicina ai bisogni dei cittadini: lo Stato non può continuare a essere percepito come un Leviatano, come un nemico che punisce in forme a volte addirittura persecutorie. Se non si ricostruisce un rapporto di fiducia tra i cittadini e la cosa pubblica, se i cittadini non tornano a sentirsi protagonisti dei processi decisionali, la forbice tra la classe dirigente e il resto del Paese non potrà che continuare ad allargarsi. Molte delle istanze che giungono da più parti, sebbene spesso distorte e amplificate dal linguaggio gridato dei media e dei social, sono certamente condivisibili, specie quando chiedono una decisa semplificazione della burocrazia, meno spese per il mantenimento dell’apparato statale, meno sprechi di risorse, una giustizia più rapida ed efficiente, un Paese più trasparente, che sappia dare valore al merito, ridurre la sperequazione economica tra lavoratori e dirigenti e mettere un argine alle rendite di posizione.
Trasparenza per combattere la corruzione
Accanto alla sua efficacia nello scoraggiare i fenomeni di corruttela, il risultato più importante dell’aumento della trasparenza della pubblica amministrazione è quello di ricostruire un rapporto di fiducia tra amministratori e amministrati, superando il crollo di credibilità causato dagli scandali, dagli sprechi di denaro pubblico e dagli episodi di corruzione che troppo spesso riempiono le pagine dei quotidiani.
Un altro aspetto da tenere presente è che, se negli scorsi decenni l’informazione politica funzionava essenzialmente ‘a senso unico’, oggi il web 2.0 e i social network hanno introdotto un radicale cambiamento nel confronto tra amministratori e cittadini. Tuttavia, lungi dall’auspicare la riduzione del discorso politico ad uno scambio di tweet o di post su Facebook, occorre comprendere che le potenzialità offerte dalla Rete in tema di partecipazione democratica sono davvero eccezionali. Ci sono esempi numerosi all’estero ai quali ispirarsi: dalla statunitense GovLoop, una rete di conoscenza dedicata al governo, fino ad arrivare al progetto di revisione costituzionale via internet che l’Islanda ha realizzato con l’obiettivo di coinvolgere tutti i cittadini nel processo decisionale.
Certamente anche da noi sarebbe utile creare piattaforme digitali utili a organizzare la partecipazione al dibattito politico canalizzandolo in modo costruttivo, garantendo una vera continuità tra governanti e governati ed evitando che la partecipazione dei cittadini al dibattito politico online resti nella maggior parte dei casi inascoltata, o prenda i toni a volte di un’invettiva inutile e fine a se stessa.
Il recupero della fiducia dei cittadini verso le istituzioni passa anche dal lavoro di queste ultime per correggere la percezione sempre più diffusa della classe politica come di una ‘casta’ di privilegiati, e dei luoghi dove si svolge il processo democratico come di apparati i cui costi esorbitanti pesano inutilmente sulle spalle dei contribuenti.
Particolarmente importante in questo senso è l’introduzione di un Freedom of Information Act – così definito in riferimento alla nota legge statunitense del 1966 – che sancisca il diritto dei cittadini ad accedere ai dati e ai documenti della Pubblica Amministrazione, in ossequio alla proposta di legge avanzata dal collettivo FOIA4Italy, secondo cui «avere accesso alle informazioni raccolte dallo Stato è un diritto universale, che è alle fondamenta della nostra libertà di espressione perché è il presupposto di una piena partecipazione come cittadini alla vita democratica».
Un primo importante risultato in questo senso è stato ottenuto con il dlgs. 97/2016 sull’accesso civico generalizzato e gli obblighi di pubblicazione, ottenuto appunto anche grazie alla petizione del FOIA4Italy, che ha raccolto quasi 90.000 adesioni. Il Consiglio dell’ANAC ha approvato nella seduta del 28 dicembre scorso le Linee guida per l’attuazione del decreto, gettando le basi per una comunicazione più rapida e trasparente tra cittadino e pubblica amministrazione, anche nell’ottica di ostacolare il pilotaggio degli appalti.
A 25 anni dalle stragi: cosa è cambiato?
Quest’anno, come sappiamo, ricorrono i 25 anni di uno dei momenti più bui della storia del nostro Paese: quei 57 giorni che separarono la strage di Capaci da quella di via d’Amelio sono i giorni dell’omertà, del silenzio, della paura, di uno Stato che non fu capace di prevenire il ripetersi dell’orrore, di difendere i suoi difensori.
Eppure, «gli uomini passano, le idee restano» – come aveva detto Giovanni Falcone poco tempo prima di quel 23 maggio 1992 quando l’Italia si fermò. E fu Paolo Borsellino, nella sua ultima intervista, a parlare della necessità di una «rivoluzione culturale» che scuotesse nel profondo le coscienze, che facesse riprendere ai cittadini cognizione della bellezza di cui sono eredi e dell’ignobile reato di chi di questa bellezza fa spregio strappandola alla proprietà collettiva, inquinando la terra, distruggendo paesaggi unici al mondo, adoperando la violenza e la prevaricazione ma ancor più il malaffare e la connivenza.
A partire da quel 1992 si sono susseguiti processi (solo il filone milanese ha collezionato 4520 indagini) e sono scomparsi partiti politici, ma oggi, a distanza di un quarto di secolo, non possiamo, purtroppo, affatto dire che la corruzione nel nostro Paese è diminuita. Secondo Transparency International siamo al 60° posto nel mondo per livello di corruzione percepita nel settore pubblico e politico, rispetto al 61° del 2016; un risultato poco gratificante, che ci relega ancora nelle ultime posizioni della classifica UE – peggio di noi fanno solo Grecia e Bulgaria.
In questo anniversario, dobbiamo dire a gran voce che il nostro Paese non ha saputo far tesoro del grande esempio e del sacrificio dei giudici Falcone e Borsellino. Nel corso del XXX Salone del Libro ho avuto modo di presenziare alla presentazione del libro di Giovanni Bianconi L’assedio. Troppi nemici per Giovanni Falcone, dove è emerso l’isolamento a cui è stato soggetto il magistrato nel corso della sua azione antimafia, «i torbidi giochi di potere, di strumentalizzazioni a opera della partitocrazia, di meschini sentimenti di invidia e gelosia (anche all’interno delle stesse istituzioni), tendenti a impedirgli che assumesse quei prestigiosi incarichi i quali dovevano, invece, a lui essere conferiti sia per essere egli il più meritevole», come recital’estratto della sentenza, emanata dalla seconda sezione Penale della Corte di Corte di Cassazione il 6 maggio 2004. E allora, cosa possiamo fare per cambiare lo stato delle cose? Il nostro primo dovere, ovviamente, è quello di ricordare e raccontare, per fare in modo che la realtà dei fatti non sia mai dimenticata, anzi sia sempre meglio conosciuta e diffusa in tutta la società.
Dal punto di vista legislativo, occorre che siano accorciati i tempi dei processi, che la prescrizione torni ad essere strumento di civiltà giuridica piuttosto che di diseguaglianza sociale e inefficienza, e che si legiferi a tutela di chi segnala e fa emergere gli illeciti.
Ma quel che serve di più è un’educazione civica continua e mirata, che parta dalle giovani generazioni. Abbiamo bisogno che la cultura della legalità sia portata ovunque, grazie al potere della cultura e della conoscenza come antidoti all’indifferenza e alla rassegnazione.
In tanti hanno creduto e continuano a credere nel potere della parola, della cultura contro la criminalità organizzata: non a caso uno degli ultimi libri di Roberto Saviano si intitola proprio La parola contro la camorra, dove egli scrive che «Ogni lettore che protegge un libro, sta permettendo alle tante vicende avvolte nell’ombra di diventare storie degne di essere raccontate. Ai morti diventati un numero, di tornare a essere persone. Ai sogni rimasti a margine, di tornare a essere possibilità reali». Solo ripartendo dalla cultura e insegnando, attraverso di essa, alle nuove generazioni non solo il valore del sacrificio dei giudici Falcone e Borsellino ma anche e soprattutto i valori della legalità e della giustizia potremo fare in modo che il sogno di un’Italia libera dal cancro della corruzione possa finalmente realizzarsi e che la società di domani sia più onesta, sicura e solidale, per tutti.
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