
All’interno della Biblioteca Oliveriana di Pesaro, nel giorno dei 220 anni dalla fondazione
La scorsa settimana*, a Pesaro, abbiamo festeggiato il 220° anniversario dell’apertura al pubblico della biblioteca di Annibale Olivieri: un’istituzione importante, tra le maggiori raccolte di beni culturali del nostro Paese, nella quale è custodito un vastissimo patrimonio librario, documentario, archeologico e storico-artistico, comprendente manoscritti miniati, libri antichi, collezioni di disegni e stampe, pergamene, monete, archivi; un esempio di lungimirante e illuminata donazione, da parte di un privato, alla collettività, che lo Stato e le istituzioni hanno il dovere di tutelare e valorizzare, anche in tempi di crisi, anzi forse soprattutto in tempi di crisi. Pensate alla lungimiranza di un privato che fa suo il significato di interesse pubblico della sua collezione.
Scriveva Marguerite Yourcenar nelle Memorie di Adriano che «fondare biblioteche è un po’ come costruire ancora granai pubblici: ammassare riserve contro l’inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire»: una frase che colpisce e della quale ci si dovrebbe ricordare quando si sente affermare, come si è fatto in anni recenti, che la crisi impone di tagliare i finanziamenti alla cultura perché si tratta di un settore improduttivo; quando invece è vitale, al contrario, impedire che la crisi economica si traduca in una crisi anche di cultura e di valori, con una spirale di effetti sempre più gravi anche sul tessuto umano e sociale del Paese.
«Chi non ricorda, non vive», scrisse uno dei nostri massimi filologi, Giorgio Pasquali. E importantissimo è, in questo senso, il ruolo delle biblioteche, luoghi della conservazione del passato e della memoria: quella memoria che Cicerone definiva nel De oratore «thesaurus rerum omnium», «forziere di ogni cosa», e quel passato la cui meditata conservazione è, in ogni società, imprescindibile requisito per la conoscenza di sé e degli altri, per la consapevolezza della propria identità, per la costruzione del senso civico e di una comunità solidale, e non meno per la capacità di pensare e di progettare il proprio futuro. E questo è particolarmente vero nell’epoca della ‘sovrainformazione’, dell’eccesso di notizie, di nozioni e di stimoli inevitabilmente legato a una condizione – per tanti altri aspetti positiva – di illimitata connessione di tutti con tutto: una condizione nella quale diviene urgente la necessità di catalogare e archiviare il sapere in modo critico; vale a dire creando percorsi di significato, disegnando mappe che mettano in condizione di potersi orientare, proponendo interpretazioni, ricercando insomma un ordinamento di quella infinita molteplicità che rischia altrimenti di risolversi in un caos informe e privo di senso; quando invece la domanda sul significato resta imprescindibile per qualsiasi forma di conoscenza.
Ma la biblioteca non è soltanto il fulcro del sistema di conservazione della memoria storica di una comunità: è anche il presidio fondamentale a sostegno della cultura, nelle città come nei piccoli centri; ed è occasione e veicolo di valori positivi quali la socializzazione, l’integrazione, la condivisione degli spazi e delle conoscenze, la responsabilizzazione verso il bene comune: a testimonianza del ruolo cruciale che la cultura, così come l’arte, può svolgere nella costruzione del senso civico, che è fondamento di ogni società, e del sentimento di appartenenza a una comunità solidale. E un’istituzione antica e vitale come la Biblioteca Oliveriana fa onore, con le sue molteplici attività e iniziative, a tale compito, che appare oggi vitale e strategico.
Vorrei dedicare infine qualche brevissima riflessione al «Salone della Parola», il festival della filologia promosso e organizzato ogni anno dalla Biblioteca Oliveriana. Citavo prima le parole di Giorgio Pasquali. Vorrei ora ricordare la definizione, certamente particolare ma – mi sembra – di grande attualità, che della filologia diede un suo cultore divenuto in seguito uno dei maggiori protagonisti della storia della filosofia europea: Friedrich Nietzsche, che nel 1886, nella prefazione ad Aurora, scriveva che «filologia […] è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento, essendo un’arte e una perizia da orafi della parola, che deve compiere un finissimo attento lavoro e non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento. Ma proprio per questo fatto è oggi più necessaria che mai; è proprio per questo mezzo che essa ci attira e ci incanta quanto mai fortemente, nel cuore di un’epoca del “lavoro”: intendo dire della fretta, della precipitazione […] che vuol “sbrigare” immediatamente ogni cosa, anche ogni libro antico e nuovo: per una tale arte non è tanto facile sbrigare una qualsiasi cosa perché essa ci insegna a leggere bene, cioè a leggere lentamente, in profondità, guardandosi avanti e indietro, non senza secondi fini lasciando porte aperte, con dita ed occhi delicati».
La filologia è accuratezza, rigore, precisione, scientificità, consapevolezza della storia: nelle sue manifestazioni migliori, un modello per ogni altra disciplina umanistica, e insieme una fonte di ispirazione importante, in ogni ambito della cultura e della vita associata, in un momento storico nel quale il rischio connesso ai nuovi media e alle nuove fonti di informazione è quello di una indiscriminata e acritica giustapposizione di ogni idea e di ogni tesi, nel nome di un’anarchia relativista che – lungi dall’essere una conseguenza del pluralismo – ne costituisce invece la radicale e paradossale negazione. Nietzsche sosteneva che la filologia insegnasse a leggere «bene», «lentamente», «in profondità»: è quell’esperienza della lettura solitaria, profonda, meditata, celebrata da Petrarca nell’epistola metrica a Giacomo Colonna, da Machiavelli nella lettera al Vettori, da Proust nelle Journées de lecture, della quale si avverte particolarmente il bisogno oggi, al fine di arginare quei fenomeni di dispersione che già Seneca, in una lettera a Lucilio, rilevava in coloro che passavano frettolosamente da un volume all’altro, senza assimilare nulla; fenomeni che oggi sono amplificati dalla fruizione contemporanea di un’infinità di flussi informativi e mediatici diversi, in un caleidoscopio che rischia di ridurre la conoscenza a una effimera somma di impressioni e sensazioni prive di spessore e di storia.
Per questo serve oggi più che mai la filologia, per questo servono le biblioteche: perché soltanto sulla base di un rinnovata consapevolezza della nostra storia e della nostra cultura – i «granai pubblici» evocati dalla Yourcenar –, e di un conseguente, rinnovato sentimento della collettività e del bene comune, sarà possibile affrontare le sfide assai impegnative, e in gran parte inedite, che ci attendono nei prossimi anni.
*Questo post è tratto dall’intervento che ho pronunciato all’Auditorium della Cassa di Risparmio di Pesaro il 4 ottobre 2013
Caro Ministro,
Io sono convinta che il passato aiuti a guardare meglio il futuro.
La nostra Storia dovrebbe essere un argomento turistico fondamentale.
Gli stessi concetti (conservazione del passato e della memoria, la conoscenza di sé e degli altri, per la consapevolezza della propria identità, presidio fondamentale a sostegno della cultura, ecc.) non possono valere anche per i Musei (Statali, civici, privati)?
In fondo molti Musei (soprattutto, ma non solo, civici: Bologna, ma, ad esempio, anche Massa Lombarda, piccolo Museo di un medio Comune in provincia di Ravenna) nacquero nella seconda metà dell’800 proprio con l’intento di “educare i cittadini” (se non proprio mirati all’educazione dei più giovani).
La forza e lo spessore culturale di questo scritto è raro, mi viene da dire, assai raro, per un politico.Chiedo al Ministro di continuare così e di servirsi delle risorse culturali per trovare dei nessi con altre politiche,facendo cosi leva.Pensi, allora alle città che richiedono nuovi approcci, nuove visioni, nuove cittadinanze.
Sig. Ministro, il patrimonio culturale italiano é di un valore inestimabile e puó essere il volano dell’economia nazionale. Rischiamo di perdere i finanziamenti europei per il Progetto Pompei, ancora non viene nominato il Pool e si rischia di ripetere gli sbagli storici.
“Chi non ricorda, non vive”!! Grande Ministro Bray per la mia Calabria mi permetto di porre alla Sua attenzione la seguente riflessione: “…Oggi la storia non è ormai che un filo sottile di memoria sopra l’oceano del dimenticato; ma il tempo procede e verrà il tempo delle date alte che la memoria non estensibile degli individui non sarà in grado di comprendere; interi secoli e interi millenni cominceranno allora a cadere dalla loro memoria, secoli di quadri e di musica, secoli di scoperte, di battaglie, di libri. Ciò sarà un male perché l’uomo perderà la coscienza di sé mentre la sua storia, incomprensibile e incontenibile, si rattrappirà in abbreviazioni schematiche prive di senso ..” (M. Kundera). Nel momento in cui sono le proprie radici, la propria terra, la propria storia ad essere investite dall’oblio, la dolorosa sensazione “Pensare che tutto passa e quasi orma non lascia”, universalizzata da Giacomo Leopardi, diventa ancora più pesante. In particolare nel meridione d’Italia, dalle nostre parti, viviamo nella ricerca, spesso affannosa, di qualità e positività altrove, tanto che si finisce col guardare in modo superficiale e distratto al territorio in cui si vive e perdere così il legame con le nostre radici più profonde. Da questo ultimo grave prodromo e da una nuova filosofia della consapevolezza nasce, prende corpo e si nutre il mio, ennesimo, SOS Beni Culturali in Calabria.
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