Una veduta di Smirne al tramonto

Una veduta di Smirne al tramonto

C’è un passo di Shakespeare nel quale il grande drammaturgo ci dice che la morte è più dolce se lo sguardo può avere come ultimo orizzonte i luoghi e le persone amate. Ho ricordato le sue parole quando ho pensato al corpo del bambino ritrovato senza vita sulle coste turche: è morto lontano dallo sguardo della sua terra, della sua mamma. Senza protezione, senza gli odori e gli oggetti della sua infanzia.

Chissà come sarebbe stato il suo futuro, chissà dove sarebbe vissuto se fosse arrivato nel Paese immaginato dai suoi genitori. Forse sarebbe stato un ingegnere o forse un operaio: non lo sapremo mai perché una stupida scelta “politica” ha chiuso i suoi occhi. Quella del corpo di Alan senza vita è l’immagine più dura, più disumana, più cinica, intollerabile per tutti coloro che hanno a cuore il valore della vita, per tutti noi che vorremmo essere eredi di una cultura europea. È l’immagine di una tragedia oltre la quale non si può più andare.

“Come si fa a far morire un bambino?” – mi chiede Giovanni, mio figlio. “Perché la mia vita ha più valore della sua? Né io né lui abbiamo scelto dove nascere”. Dovrei spiegargli cosa significa vivere oggi in Siria, costretti a subire la violenza di fazioni in guerra tra di loro. Oppure dovrei spiegargli che Alan è morto perché suo padre poteva essere un terrorista mascherato da rifugiato.

Ma credo che Giovanni non capirebbe, per fortuna non capirebbe. Ha letto le fiabe delle mille e una notte perché sua nonna era nata a Smirne e in quei racconti ha sempre incontrato l’accoglienza, il dialogo, e non i “respingimenti”.

Malgrado una retorica fatta di impegni mai rispettati e molto spesso violenta nello scontro verbale, nessuno degli stati europei ha idea di come gestire il problema.

Di fondo non c’è la tensione morale che deve indirizzare le politiche di integrazione; quella tensione morale che dovrebbe indirizzare le scelte di politica europea, la capacità di andare oltre i “diktat della troika”, oltre quelle politiche di rigore che assimilano la vita dello stato, degli individui, a quella di un’azienda.

Abbiamo bisogno di cultura europea e non di diktat, di comprensione e risoluzione dei problemi degli individui e non di vuoti e inutili slogan politici. Non crediamo più alle promesse di chi promette incontri, soluzioni mentre vediamo ogni giorno il Mediterraneo riempirsi di morti.

A che serve l’Europa, a che servono le infinite strutture burocratiche se non si riesce a evitare la morte di un bambino che chiedeva di fuggire dalla guerra per vivere un futuro migliore? A che serve l’Europa se la sua storia, la cultura sono continuamente calpestate dall’indifferenza e dalla mediocrità di una classe dirigente incapace di affrontare e risolvere il problema dei migranti.

Pensate al dopoguerra e alla nascita dell’ONU; la tensione morale verso il problema dei profughi si coniugava ad un forte senso di solidarietà, di eguaglianza, di tolleranza. Si levi allora con forza la proposta di istituire un’Agenzia Europea per i rifugiati, in grado di aiutare le donne e gli uomini che fuggono dai loro paesi per motivi politici, economici, sociali. Si stabiliscano entro pochi giorni i criteri per affidare all’Agenzia tutte le azioni di coordinamento dell’accoglienza (azioni a cui tutti gli stati europei dovranno sottostare), rilasciare il diritto d’asilo europeo, i permessi regolari di lavoro, in base a flussi stabiliti annualmente dall’Agenzia a livello europeo, raccogliendo le esigenze dei singoli stati.

Sia sempre l’Agenzia a promuovere tutte le azioni di assistenza presso gli stati da cui muovono i flussi di migranti. Adotti i provvedimenti obbligando tutti i paesi dell’Unione a rispettarli. Sia, in questo modo, il primo momento di scelta culturale, politica e sociale di un entità che mostri di ricordare e voler ribadire che nelle sue storie sono nati i diritti universali. Forse solo allora a tutti gli europei sarà restituito il vero significato della loro Unione e l’orgoglio di esserne cittadini.


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