
Ascoltare gli interessi generali. Da giorni mi risuonano nella testa queste parole. Ascoltare è stata la parola chiave dei giorni di campagna elettorale ormai trascorsi, di quelli appena passati, dal primo giorno in Parlamento a oggi e di questi – così incerti – che abbiamo davanti.
Mi sono chiesto, e mi chiedo, se sia stato un ascolto giusto, pieno, fecondo, quello che ho provato ad offrire durante le tappe della mia campagna elettorale, quando percorrevo il Salento e, più in generale, la Puglia, la mia terra, incontrando gli occhi delle persone, raccogliendo esperienze di vita, scambiando elementi di futuro. Il ricordo più vivido dell’intera campagna è ambientato in un piccolissimo centro del Sud Salento, a Marittima di Diso. Molti dei presenti potevano dire di avermi visto crescere. Nonostante questo – e nonostante il calore ricevuto in quell’occasione – al momento di congedarmi da loro, ho sentito pronunciare queste parole: Non accadrà che ci rivedremo tra degli anni, vero?. Queste parole, quelle attese, che per me, in quel contesto, sono suonate come un monito affettuoso, oggi minano le basi della mia esperienza politica.
Mi sono chiesto, e mi chiedo, quanto sia sereno e lucido quello che provo ad offrire ora, in questo pasticcio infinito in cui siamo aggrovigliati e da cui sembra impossibile venire fuori.
In quei giorni, fatti di parole e chilometri, ho incontrato molti sostenitori del M5S, molti di quelli che probabilmente se ne sarebbero rivelati elettori reali. Non mi sono mai sottratto al dialogo e all’incontro, al confronto. Perché, forse, convincerne qualcuno a desistere, a votare diversamente, mi sembrava un successo vero. Non perché il loro voto diversamente espresso valesse di meno, ma proprio perché – raccogliendo il loro dissenso e provando a convincerli della concretezza del nostro programma – mi dicevo che sarebbe stato un punto importantissimo e reale conquistato sul campo.
E’ così che si è accesa una speranza diversa, dentro di me: quella di poter tornare a fare quello che forse si è smesso di fare da troppo tempo. Ascoltare. Ecco di nuovo questa parola, che tornava con giustezza. Nelle mille parole e mani e sguardi che ho scambiato, in questi mesi, ho percepito sempre, fortemente, la delusione delle persone che non si sentivano più accolte. Peggio. Noi, io, i miei compagni di partito e quella stessa formazione politica che ha attraversato anni burrascosi per darsi un volto nuovo provando a salvare la bellezza e il cuore delle lotte per cui era nata – diritti, lavoro, persone – eravamo percepiti come lontani, diversi, freddi, confusi.
Non siete più dalla nostra parte, il rimprovero più forte. E il grido assordante, e la crisi palpabile, in quei chilometri di territorio, la potevo sentire con mano, toccare con gli occhi. Allora anche io sono andato in crisi. Ero partito pensando che avrei parlato di cultura, che avrei provato a rimettere al centro la cultura, che riaccendendo la speranza della bellezza e delle centralità delle persone avrei ridato fiato e cuore a queste stesse persone, avrei teso una mano per far capire che insieme avevamo una strada da percorrere, che non era vero che tutto era perduto. Che bisognava lavorare insieme, e non solo distruggere o raccogliere i cocci di un Paese fiaccato peggio che da una guerra, nessuno escluso: imprese, lavoratori, istituzioni, speranze.
Ma mi sono accorto che davanti a me avevo un compito ancora più arduo, un compito che in tante notti insonni mi sono domandato se fossi in grado di portare a termine. Quello di riempire di senso il ruolo di rappresentanza politica, una rappresentanza piena, non legata al momento, alla necessità di avere voti, al compiacimento di un ritorno di immagine, sei bravo, stai facendo bene.
Le persone che ho incontrato mi dicevano altro. Più profondamente, mi chiedevano di non essere un politico che, come tutti prima di me e forse anche a fianco a me, si presentasse solo nel momento delle elezioni per prendere voti e poi via, verso ragioni di Stato usate come barriere altissime per chiudersi su scranni dorati.
Ho tremato, al pensiero di essere veramente all’altezza di questo mandato. Mi sono chiesto se sarei stato capace di mettere da parte le mie paure, le mie aspettative, i miei interessi per far prevalere altro: una rappresentanza nuova, un servizio per il Paese, senza orpelli. Poi sono entrato in Parlamento.
Credo che non scorderò mai l’emozione che mi ha fatto vacillare il passo, mentre camminavo con gli occhi all’insù. L’emozione verso un’istituzione che è il cuore della nostra democrazia, il cuore pulsante e vero, reale, di un modo di essere popolo che dovrebbe essere celebrato ogni giorno per la carica di possibilità che ospita nel suo seno.
Ho percorso il corridoio di Basile, e ho guardato con occhi di bambino questa nuova esperienza che mi è stato concesso di vivere. Ho capito, ho pensato, che le persone che prima di me si erano sedute su quegli scranni, mi sarebbero stati d’aiuto e d’esempio nei momenti bui che sapevo benissimo sarebbero giunti molto presto.
Nell’anima, sensazioni contrastanti. Da un alto, il senso delle istituzioni, la responsabilità, l’onore, la potenzialità che mi si stava sprigionando davanti, come cittadino: quella di dare il mio contributo. E dall’altro la vertigine di questo momento incredibile, il terreno che frana sotto i piedi, il senso di angoscia del sentirsi guardato dall’alto, dagli scranni occupati dai grillini, come il vecchio, come il complice, come il colpevole.
La politica come vecchia politica, la vecchia politica come mala politica.
Ho capito che sarebbe stato davvero molto difficile. Ma che ci dovevamo provare, che non si poteva non provare.
[in Huffington Post, 5 aprile 2013]
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