copertina alla voce cultura

 

Questo post anticipa una parte del quindicesimo capitolo di “Alla voce cultura”, volumetto che raccoglie, in forma di “Diario sospeso”, la mia esperienza di Ministro. “Alla voce cultura” sarà pubblicato da Manni Editore il 28 novembre 2019 e sarà presentato il 7 dicembre 2019 in occasione di Più libri più liberi: Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria, al Roma Convention Center – La Nuvola. 

[...]

Quando seppi della mia nomina a ministro l’emozione fu immensa, come è normale che fosse: il primo pensiero andò a mia madre, a quello che mi avrebbe detto, a come mi avrebbe spronato. Ma mia madre non c’era più. Anche se dentro di me la sua presenza era intatta.

“Se chiudo gli occhi, la immagino seduta nella vecchia casa di Lecce con un libro in mano, felice e preoccupata per l’impegno che dovrò affrontare”, scrivevo nel Diario.

A casa, a Lecce, la mattina sino alle 13, con lei, c’era A.; i miei amici, quando sapevano che ero lì, passavano a trovarmi e A. preparava subito un caffè. Mia madre partecipava ai nostri discorsi, felice della nostra presenza. Ero consapevole che mi sarei sentito più forte se mamma fosse stata ancora lì ed avessi avuto la possibilità, di tanto in tanto, di andare a parlarle.

L’odore del gelsomino in estate e dei fiori di arancio in inverno sono note inscindibili da quella casa liberty, in stile arabesco, nel centro di una città barocca. In quelle stanze mi sono formato, ho letto moltissimi libri – i libri, compagni importantissimi di tutta una vita. Quando vedevo mia madre venirmi incontro, in giardino, il cuore mi batteva forte; sapevo che faceva fatica a camminare e vedevo che abbassava la testa come se fosse imbarazzata. Aveva sempre un foulard al collo e mi sorrideva felice: «Sei tornato!» «Che eleganza», le rispondevo, sapendo di farla felice. «Parteciperò alle elezioni, perché S. si è battuto per mettermi in lista; non so se mi volevano», dissi scherzando. «Hai paura, Massi?» La conoscevo bene e lei conosceva il mio animo. «Non averne, ci sarà sempre questa casa ad aspettarti, qualunque cosa accada».

Prima delle elezioni, mentre percorrevo il Salento e la Puglia, molti amici avevano firmato una lettera in cui mi chiedevano un forte impegno per la cultura. Questo è stato il pensiero che mi ha accompagnato nel tragitto verso il Quirinale, il giorno del giuramento: rispettare le loro aspettative, cercando di fare bene e dimostrando, giorno dopo giorno, la centralità della cultura.

Ho puntato tutto – campagna elettorale, mandato parlamentare, incarico istituzionale – sull’obiettivo di rispettare l’impegno preso con loro. Fu A., amico di una vita, a dirmi che avrei dovuto essere sempre consapevole che investire in cultura significa investire nel nostro presente e nel nostro futuro.

Un grande storico inglese, Frederick William Maitland, ha scritto che «quello che è oggi il passato è stato una volta il futuro». I nostri antenati furono grandi perché, scriveva, in grado di concepire un futuro che preservasse i valori culturali identitari.

“La situazione che abbiamo di fronte potrebbe portarci ad una lettura pessimistica: la scuola, l’università, pur con tante eccezioni positive, sono in uno stato di grave difficoltà: agli insegnanti non vengono riconosciuti il valore e la dignità del loro impegno e la loro professionalità; sono pochi gli studenti e i ricercatori stranieri attratti dal nostro sistema universitario, mentre tantissimi i nostri giovani che abbandonano il Paese. I beni culturali hanno poche risorse per la tutela e sono valutati esclusivamente per la capacità di vendere biglietti d’ingresso. Il paesaggio ha subito aggressioni negli ultimi decenni di cui dovremmo vergognarci, le biblioteche e gli archivi non hanno risorse necessarie a consentire la consultazione dei loro patrimoni. Ma ancora non tutto è perduto”, annotavo in una delle prime pagine del Diario. “Da una politica riformista i cittadini si aspettano un profondo, reale cambiamento: e il primo di questi cambiamenti dovrebbe riguardare proprio la scuola, i beni culturali e il paesaggio”.

Scrivevo quelle parole e pensavo a quando, un pomeriggio, ero andato a trovare il mio professore di matematica e fisica del liceo. Mentre lo ascoltavo, ammiravo la sua passione per l’insegnamento, l’impegno che profondeva per farci amare quelle materie, lo sforzo per trasmetterci quei valori che ci avrebbero consentito di diventare buoni cittadini.

Ricordo che mentre parlava lo interruppi per chiedergli: «Perché fa tutto questo?»

«È il compito di un insegnante, quello di formarvi, di trasmettervi le conoscenze e di farvele amare». Ripenso spesso a quelle parole, a quel modo semplice di farmi capire la centralità della scuola e della formazione nelle politi- che di un Paese.

«La scuola è la vera infrastruttura da costruire, giorno dopo giorno», mi disse salutandomi.

Pensavo, nei mesi da ministro, alle opportunità che si sarebbero potute creare avvicinando le attività dei due Ministeri, Istruzione e Beni culturali, ma soprattutto alla volontà di porre al centro delle scelte politiche alcune necessarie convergenze.

La scuola è un pilastro imprescindibile della struttura di ogni società: il luogo in cui, più di ogni altro, i nostri figli si formano, crescono, creano, soddisfano la loro curiosità e sete di sapere, si liberano dalla strada, dalla fame, dalla solitudine, dalla povertà e dall’isolamento. Nei decenni del secondo dopoguerra la scuola italiana ha svolto un lavoro preziosissimo e capillare per sottrarre all’analfabetismo e all’ignoranza generazioni di ragazzi; per unificare il Paese attraverso la diffusione del sapere e di una cultura nazionale condivisa; per combattere le diseguaglianze sociali e territoriali offrendo a tutti la possibilità di un’istruzione, in media, di grande qualità; per favorire la mobilità sociale. Dove c’era la scuola arrivava un’opportunità di crescita sociale e civile, uno strumento per sviluppare un percorso di consapevolezza individuale e collettiva, per offrire una possibilità di miglioramento per tutti. La scuola costruiva la «società».

Scrivevo nel Diario: “Oggi la scuola, indebolita da tagli e delegittimata nel suo ruolo, si prepara ad affrontare vecchie piaghe e nuove, difficili sfide. Vecchie piaghe, come quella dell’abbandono scolastico nelle periferie geografiche e sociali del Paese, dell’obsolescenza delle strutture, della mancanza di strumenti adeguati per la didattica di base e per quella più innovativa, della limitatezza, in molte aree del Paese, dei servizi offerti. Ma anche nuove sfide, come quella dell’integrazione nel rispetto e nella valorizzazione delle specificità e della ricchezza di ciascuna delle culture, dell’apertura a un mondo che cambia sempre più celermente, a un sapere che si arricchisce e diffonde con grande rapidità grazie alle nuove tecnologie ma che pone, al contempo, inedite problematiche. Di fronte a queste sfide la scuola andrebbe potenziata, soprattutto nelle aree più difficili, nelle periferie, nei luoghi dell’emarginazione; dovremmo investire, crederci, consapevoli che è una delle leve principali che abbiamo a disposizione per scardinare lo stato di difficoltà in cui ci troviamo”.

Il mio proposito, scrivevo nel Diario, sarebbe stato quello di rispettare le parole della Costituzione, lavorando per dare una più vera attuazione a quei principi fino ad oggi in gran parte mortificati: l’articolo 3, l’articolo 9.

“La cultura non è una merce che si può comprare e vendere, apprezzare o deprezzare secondo l’utilità del momento”, annotavo riflettendo su una svolta antropologica, culturale che aveva investito il Paese, “smontando pezzo dopo pezzo lo Stato”.

Marguerite Yourcenar scriveva nelle Memorie di Adriano: «Fondare biblioteche è un po’ come costruire ancora granai pubblici: ammassare riserve contro l’inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire».

È importante, strategico, decisivo per il futuro e per le generazioni che verranno dopo di noi essere consapevoli del fatto che i libri, le biblioteche, la cultura in ogni sua manifestazione appartengono a tutti.

E centrale dovrà essere il ruolo delle biblioteche, degli archivi, delle librerie come luoghi della conservazione del passato e della memoria: quella memoria e quel passato la cui meditata conservazione è, in ogni società, imprescindibile requisito per la costruzione del senso civico e di una comunità solidale; ma, nello stesso tempo, luoghi del presente in cui aggregare, creare comunità capaci di pensare il futuro, rafforzare le relazioni sociali, tutelare i linguaggi, le culture. Luoghi che grazie alla conoscenza creano quel- le condizioni per sentirsi parte attiva di una società. “E questo è particolarmente vero nell’epoca della sovrainformazione, dell’eccesso di notizie, di nozioni e di stimoli inevitabilmente legato a una condizione – per alcuni altri aspetti positiva – di illimitata connessione di tutti con tutto: una condizione nella quale diviene urgente la necessità di ordinare e codificare il sapere in modo critico; creando percorsi di significato, disegnando mappe che mettano in condizione di potersi orientare, proponendo interpretazioni, ricercando insomma un ordinamento di quella infinita molteplicità che rischia altrimenti di risolversi in un caos informe e privo di senso; quando invece la domanda sul significato resta imprescindibile per qualsiasi forma di conoscenza”.

Ma una biblioteca, come una libreria, non sono soltanto il fulcro del sistema di conservazione della memoria storica di una comunità; rappresentano anche i presidi fondamentali a sostegno della nostra civiltà, nelle città come nei piccoli centri; e sono occasione e veicoli di valori positivi quali la socializzazione, l’integrazione, la condivisione degli spazi e delle conoscenze, la responsabilizzazione verso il bene comune.

La politica e le istituzioni devono e dovranno sempre farsi carico della loro tutela e della loro valorizzazione: nell’interesse della collettività.

Considerare i beni culturali come beni deve avvenire in una logica di servizio e di contributo alla vita collettiva della comunità, in una cornice di regole chiare e rigorose; tenendo fermo, soprattutto, il principio per il quale la cura dei beni comuni è un compito fondamentale e imprescindibile delle istituzioni.

Anche in questi momenti di crisi, la nostra Costituzione si dimostra lungimirante, collocando al centro della responsabilità politica la felicità e il benessere dei cittadini. All’articolo 42, la proprietà pubblica o privata è riconosciuta come mezzo e non come fine: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti». Dobbiamo tornare a mettere al centro delle nostre riflessioni il ruolo dello Stato; uno Stato non invadente e invaso dalla politica, ma uno Stato che stabilisca le regole e le faccia rispettare; uno Stato che tuteli la privacy e garantisca la centralità della scuola, della formazione, della sanità, della cultura.

 


Commenti

Posta un commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

󰁓