
La torre del libro
È davvero con grande emozione che inauguriamo la trentesima edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino: una ricorrenza importantissima, che abbiamo voluto celebrare progettando un Salone ancora più grande, più ricco e più inclusivo, e guardando allo stesso tempo indietro e avanti. Indietro, per ricordare e ripercorrere la lunga tradizione che ci ha portato fin qui, partendo da quel 18 maggio 1988, dal primo Salone – che ebbe subito un grande successo. Ideato da Angelo Pezzana e Guido Accornero, il Salone è divenuto il maggiore appuntamento dell’editoria italiana e uno dei più importanti momenti della vita culturale del Paese, arrivando a competere con le fiere di Parigi, Londra e Francoforte.
Ma non sono i primati a spiegare la storia di una manifestazione che è strettamente e indissolubilmente legata a questa città, che ha vissuto, soprattutto grazie alle Olimpiadi invernali del 2006, un profondo rinnovamento, affiancando alla sua storia e alla sua anima, una nuova immagine di polo della cultura e della storia, ma anche dell’arte contemporanea, del cinema, dell’animazione, dell’innovazione.
L’intento è stato dunque, in primo luogo, quello di continuare a lavorare sul fronte di una strettissima connessione tra Salone e città, perché questa non è una delle fiere di libri che si svolgono nel nostro Paese, ma è il Salone Internazionale del libro di Torino, un bene comune di tutti i cittadini, ai quali spetta, insieme alle istituzioni, il diritto dovere di tutelare e promuovere questo evento di grande valore per la vita civile, come per quella economica.
Abbiamo voluto, quindi, un Salone corale, grazie in primo luogo all’impegno dei Soci: Comune, Regione, Miur, Mibact, Banca Intesa, e grazie agli Editori amici del Salone, alle istituzioni cittadine e a tutti coloro – moltissimi – che hanno difeso con coraggio e passione i valori del Salone.
Un gruppo di lavoro straordinario che del salone rappresenta la storia insieme ad alcuni consulenti che conoscono e amano l’editoria e un direttore editoriale, Nicola Lagioia, che ha colto il valore e la portata della sfida, sono stati i principali ingredienti della svolta, della capacità di reagire, mettendo in piedi uno straordinario lavoro collettivo. Esperienze diverse, che si sono sommate in uno scambio fecondo di idee, definendo un Salone più ricco come mai di invitati, di editori e, sono certo, di lettori che lo visiteranno.
Insomma, un piccolo miracolo nella capacità di fare sistema e di creare un lavoro di gruppo coeso, in un paese che tende a prediligere troppo spesso il protagonismo.
Un Salone che con coraggio apre tutte le sue finestre grazie agli oltre 1200 incontri in programma e a un’intuizione vincente come quella del Superfestival, il luogo che raccoglie l’eccellenza italiana in fatto di festival dedicati alla cultura, ospitandone oltre 80, a riprova della vitalità della vita culturale italiana e della voglia dei cittadini di mettersi in gioco in prima persona per promuovere su tutto il territorio nazionale l’importanza dei libri e della lettura, accanto al lavoro delle tantissime librerie, dei circoli, delle associazioni e anche delle biblioteche, dalle più grandi e importanti, alle migliaia di piccole presenti nei quartieri, nei paesi o nelle frazioni che spesso sono l’unico presidio culturale presente nell’abitato.
Si tratta di veri e propri avamposti di promozione della vita civile, di educazione alla tutela collettiva dei beni comuni, di diffusione della lettura, della cultura, della memoria storica e anche di essenziali piattaforme di confronto e incontro; spazi, insomma, di dialogo, dove si possono abbattere i pregiudizi e si può incrementare la conoscenza reciproca tra persone di comunità, culture e religioni diverse.
«Chi non legge non sa perché sta al mondo»¸ ha scritto il 5 maggio scorso su «Repubblica» Umberto Galimberti. «La realtà infatti – continua il filosofo – non è fatta solo di cose, ma di idee, storia e sentimenti di cui i libri sono i gelosi custodi». Per questo è così importante il ruolo della lettura: perché essa è il veicolo primario per la crescita culturale del nostro tessuto sociale, e senza questa crescita nessuna ripresa materiale potrà colmare il vuoto di significato e di valore che avvertiamo nelle città, nei paesi, nei quartieri, nelle periferie dove troppo spesso non c’è progettualità sociale, culturale, politica, rispetto dei beni comuni, consapevolezza della propria storia. Dunque, rinnovare la cultura passa in primo luogo dalla pratica della lettura, come abitudine da coltivare quotidianamente, in casa, a scuola, per studio o per conoscere il mondo in cui viviamo e per permettere alla nostra mente di confrontarsi con le opere dei grandi autori del passato e con quelle dei contemporanei, aprendosi alla fantasia e immaginando un futuro migliore.
L’incontro con il libro, come oggetto su cui si fonda la nostra civiltà, è un’esperienza essenziale per la mente, come scriveva Italo Calvino nel saggio del 1984, dove definì la lettura «un rapporto con noi stessi e non solo col libro, col nostro mondo interiore attraverso il mondo che il libro ci apre». Se ci si sofferma un attimo a pensarci, tutte le coordinate del mondo in cui viviamo ci arrivano aggiunge Calvino, dal lunghissimo e affascinante viaggio che il libro ha fatto nel corso della storia dell’Occidente, dagli scriptoria monastici alle prime stamperie di cui era tanto ricca la nostra Penisola – Venezia fu definita nel XVI secolo la capitale europea dell’editoria. La stessa idea di Europa che nasce da quella République des lettres che seppe immaginare un’unione d’intenti e d’intelletti a servizio della ricerca scientifica e umanistica, nacque dalla pubblicazione e dallo scambio di libri. Galileo fu ispirato dalle opere di un polacco, Copernico, e Erasmo, olandese, ebbe un ruolo essenziale nella cultura italiana del Rinascimento. Ogni idea, ogni innovazione viene da questo lento sedimentarsi che la cultura del libro ha potuto permettere.
Ma come conciliare, oggi, in una società che ci vuole frenetici, costantemente connessi e pronti a dire la nostra su qualsiasi argomento, il tempo dell’azione con quello della meditazione sulle parole lasciateci dalle menti migliori di tutti i tempi, dai romanzieri e dagli storici, dagli scienziati e dagli scrittori di oggi? Come far rivivere una prassi quella della lettura che pare, per certi versi, divenuta desueta?
Dal 2010 a oggi si sono persi più di tre milioni di lettori e la maggior parte è costituita da giovani e giovanissimi. Il trend negativo è confermato anche dai dati diffusi dagli editori, che hanno abbassato le tirature e il numero di titoli pubblicati annualmente, e dalla chiusura di molte librerie, sia indipendenti che legate a una catena. Per invertire questa crisi occorrono certamente misure a sostegno del settore e occorre anche che si recuperi la consapevolezza dell’essenziale funzione svolta dall’editore, che è quella di filtro, di mediazione e di scelta nella quale si sostanziano il compito e la responsabilità di una casa editrice, a maggior ragione in un’epoca nella quale la possibilità per chiunque di pubblicare qualsiasi cosa e la presenza in rete di una quantità enorme di informazioni, rende davvero cruciale questa assunzione di responsabilità. Si tratta, dunque, di mettere in campo un’azione continua e diffusa che, valicando la transitorietà – pur importante e necessaria – sappia creare, nell’ambiente sociale, nella scuola, nei luoghi di lavoro, continue occasioni di condivisione e promozione di questa attività, trasformandoli in altrettanti centri propulsori per una vera educazione permanente alla lettura.
Soltanto un’azione collettiva, su più fronti, che parta dai singoli cittadini, dalle famiglie, e passando per la scuola arrivi a includere tutte le istituzioni e i luoghi votati alla vita civile, può portare infatti a una nuova stagione di crescita per la lettura e in generale per la cultura e per la ricostruzione del senso civico nel nostro Paese. E deve essere chiaro a tutti, ormai, che non si può parlare di ricostruzione del senso civico se non ci si sofferma sui temi dell’accoglienza, della solidarietà, dell’integrazione.
In questo senso va letta la scelta del tema di quest’anno – Oltre il confine -, perché vogliamo sottolineare che la cultura e i libri sono momenti di inclusione sociale, insegnano ad ascoltare, invitano a conoscere le culture diverse dalla nostra, a rispondere alle angosce del presente e a disegnare nel modo migliore il futuro.
Solo una comunità inclusiva, e quindi priva di conflitti e al sicuro dalle intolleranze, può essere scenario di un vero rilancio culturale. La lettura e ogni luogo e istituzione deputate alla sua promozione possono e devono anche divenire, dunque, veicoli di incontro, di confronto, di conoscenza, opponendosi alla solitudine e alla disgregazione che sono spesso l’anticamera del disagio sociale e del diffondersi dell’illegalità. Sono solo alcune riflessioni che ci fanno capire i motivi per i quali un editore deve sempre avere un’agenda culturale per i suoi lettori e il Salone del libro un’agenda per il Paese.
Quest’anno, come sappiamo, ricorrono i 25 anni di uno dei momenti più bui della nostra storia: i 57 giorni che separarono la strage di Capaci da quella di via d’Amelio sono i giorni dell’omertà, del silenzio, della paura di uno Stato che non fu capace di prevenire il ripetersi dell’orrore, di difendere i suoi difensori. «Gli uomini passano, le idee restano» –aveva detto Giovanni Falcone poco tempo prima di quel 23 maggio 1992 quando l’Italia si fermò sgomenta, incredula di fronte a tanta violenza. E fu Paolo Borsellino, nella sua ultima intervista, a parlare della necessità di una «rivoluzione culturale» che scuotesse nel profondo le coscienze, che facesse riprendere ai cittadini cognizione della bellezza di cui sono eredi e dell’ignobile reato di chi di questa bellezza fa spregio strappandola alla proprietà collettiva, inquinando la terra, distruggendo paesaggi unici al mondo, adoperando la violenza e la prevaricazione ma ancor più il malaffare e la connivenza.
Per questo non dobbiamo mai smettere di dar voce a coloro, e sono per fortuna tantissimi, anche nel mondo della cultura, della letteratura, del cinema, della musica, del teatro, che si impegnano a diffondere la verità sulla scia di sangue, di crimine, di scempi ambientali, di ingiustizie quotidiane che stanno dietro a quelle che dobbiamo definire senza paura «mafie», immaginandole a volte come realtà lontane, come uno scenario da film poliziesco, senza renderci conto troppo spesso che la realtà è ben diversa, e che i meccanismi di stampo mafioso possono nascere ogni giorno vicinissimi a noi, anche nelle realtà più piccole e meno inquinate.
Solo se ogni cittadino, nel suo ambito professionale, nella sua vita quotidiana, nelle sue relazioni sociali, saprà schierarsi in modo deciso contro qualsiasi forma di malavita, potremo raggiungere l’obiettivo di una società più sicura e più equa, in cui non valgono i rapporti di forza e in cui nessuno viene lasciato indietro. La solidarietà e la coesione sociale sono infatti l’unica alternativa possibile a un presente sempre più insicuro e instabile che aumenta il rischio di esclusione sociale, di diffusione della criminalità, di estremizzazione dei conflitti interculturali, specie nelle periferie e nelle zone più disagiate del nostro Paese e del pianeta.
Per porre un freno a questi meccanismi di ingiustizia – sono parole di Papa Francesco – un alleato essenziale è proprio la cultura, linguaggio universale che può aiutarci alla comprensione dell’altro e all’abbattimento delle barriere economiche, sociali, fisiche che la società innalza tra gli individui.
Per questo il tema di quest’anno, così ben rappresentato dalla grafica di Gipi, è un eloquente messaggio visivo che rimarca l’importanza della lettura e della cultura per superare barriere che prima di tutto sono mentali e ideologiche, ma che sono anche terribilmente concrete.
Sono le barriere tra il nord e il sud del mondo, tra il benessere e la disperazione di chi sfida il mare con bambini e neonati, lasciandosi alle spalle qualsiasi speranza di un futuro nella sua terra natale; tra chi scappa da guerre che hanno distrutto migliaia di vite e chi si ostina a non voler vedere.
Solo la consapevolezza del lungo cammino che la conoscenza umana ha intrapreso nel corso dei secoli può permetterci di affrontare le sfide e i dilemmi che ci pone il presente senza incorrere nei pregiudizi e nelle approssimazioni che aprono la strada a derive integraliste e intolleranti, mettendo a rischio i progressi faticosamente maturati dalla nostra società a un prezzo altissimo nel corso del Novecento.
Non possiamo rinunciare ai valori che fondano la nostra cultura, i valori della solidarietà e dell’accoglienza, specie in un sistema sociale ed economico che sembra ancora troppo orientato al mercato e alle sue leggi fredde e scarsamente interessate agli scrupoli etici e morali. Se non riusciremo a cambiare punto di vista, non riusciremo a costruire un futuro migliore. Abbiamo bisogno di più solidarietà e meno egoismo, di capacità di ascolto, di dialogo e non di decisionismo.
Antonio Gramsci, di cui ricorre quest’anno l’ottantesimo anniversario della morte, scrisse a lungo sull’indifferenza e sui suoi pericoli, e ad essa contrappose proprio la cultura, lo studio, la volontà di impegnarsi, di approfondire senza fermarsi all’apparenza e alla soluzione più facile: e quella sua esortazione, «Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza» suona oggi più attuale che mai.
Gramsci auspicava una riforma intellettuale e morale e penso che sia quello il modo corretto di porre oggi il problema, quella la prima riforma e il primo obbiettivo che ci si dovrebbe porre, se davvero vogliamo intervenire nella realtà per cambiarla.
I segni da dare dovrebbero essere chiari: la cultura che sfida le istituzioni, la cultura che critica la ricerca di soluzioni compromissorie, la cultura che difende i principi e usa quelli le forme di cittadinanza attiva, nella convinzione che sia l’unico modo per dare linfa alla democrazia, per ricostituire quel legame di fiducia che si è spezzato attraverso un dialogo continuo con chi opera nei territori nella difesa dei beni culturali.
Se abbiamo scelto di difendere il Salone del libro di Torino è perché siamo convinti che il lavoro intellettuale consente di muoversi in un campo sia morale che sociale, puntando a forme di impegno che possono ugualmente giocare un ruolo importante nello spazio pubblico.
Il Salone affronterà quindi molti dei problemi che assediano il nostro presente e il mondo che ci circonda, sperando di avviare un dibattito sulle forme su cui edificare una società solidale, sensibile ai temi della libertà e dell’eguaglianza.
Torino sarà – ne sono convinto – uno straordinario laboratorio, dove la cultura incontra anche le migliori esperienze nate in questi anni dal “basso”, dalla voglia di partecipazione dei cittadini, dalla voglia di rimettere in piedi il Paese.
Italo Calvino diceva che un libro può cambiare il destino di una persona, di una città, di una storia. Per questo il nostro primo intento è stato quello di lavorare, cercando di ricucire il legame tra il Salone, la città, le sue istituzioni, i luoghi di cultura, le associazioni, perché questo è il Salone internazionale del libro di Torino, un bene comune di tutti i cittadini. Ma per fare questo era necessario che le scelte fossero condivise, pensate e non istintive, creative e non burocratiche.
Per raggiungere questi obiettivi volevamo – e speriamo di esserci riusciti – ricreare un sistema di valori, tenere fermi alcuni principi.
Quando alla fine di luglio dello scorso anno Chiara Appendino e Sergio Chiamparino mi chiesero se avessi avuto voglia di dare una mano per affrontare la situazione che si era venuta a creare dopo l’annuncio che Milano avrebbe realizzato una fieri dei libri, decisi che avrei accettato quella sfida.
In quel mese di agosto era difficile camminare per Torino ed essere ottimisti: molti pensavano che sarebbe stato difficile festeggiare il 30° anno del Salone, molti altri cercavano le responsabilità di quello che era accaduto. Dopo tante preoccupazioni il vento è cambiato, su Torino splende il sole, e tutta la squadra messa in campo – e qui consentitemi di rivolgere un grazie a Mario Montalcini e a tutto colore che hanno avuto le responsabilità di gestione – ha trovato l’entusiasmo, le competenze e l’energia per realizzare quello che sono certo sarà un grande Salone.
I libri e le case editrici possono infatti esistere solo se hanno intorno a sé idee, contenuti, donne e uomini capaci di credere nella libertà, nell’eguaglianza, nei valori della cultura.
Per questo l’augurio più grande che possiamo fare è che questi giorni di passione per i libri abbiano la forza di unire come mai la città e il Paese al Salone del libro.
Sarebbe importante che, a maggio del prossimo anno, intorno al nostro Salone di Torino ci fosse un Paese che in forma coesa e coerente avesse lavorato per dare forza al mondo editoriale e a tutti quelli che con passione e partecipazione lo chiedono.
Noi ci crediamo. Grazie
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