
Solo 36 visitatori al giorno per la splendida Dea di Morgantina, tornata in Italia il 17 marzo 2011 dopo un esilio trentennale: questa la denuncia shock di Gian Antonio Stella sulle pagine del Corriere della Sera del 23 febbraio scorso. Ma il dato, per quanto sconfortante, è soprattutto un pretesto per interrogarsi sullo stato dei musei italiani, sull’organizzazione e sulla visitabilità dei tesori del nostro patrimonio storico-artistico, sulle effettive difficoltà che derivano dal mantenere una quantità esorbitante di piccole strutture espositive diffuse su tutto il territorio nazionale, piuttosto che alcuni grandi musei nelle città maggiori che ‘concentrino’ le opere d’arte e il flusso dei visitatori.
La statua (un’imponente opera di 2,30 metri, risalente al V secolo a.C., probabilmente della scuola di Fidia) è solo uno degli innumerevoli capolavori italiani che hanno abbandonato illegalmente il Paese per essere poi battuti in grandi aste all’estero e acquistati dalle maggiori fondazioni internazionali: in questo caso il Getty Museum di Malibu, che ne entrò in possesso a Londra nel 1988, e che l’ha restituita solo dopo un contenzioso durato decenni. Il suo rientro fu salutato in pompa magna nell’ambito delle celebrazioni per il Centocinquantenario dell’Unità d’Italia, e fu esposta nel piccolo museo di Aidone, nei pressi dell’area archeologica di Morgantina, suo luogo d’origine; ma da subito fu evidente che non sarebbe stato facile mantenere il numero dei visitatori al livello di quello statunitense.
Il piccolo borgo, dotato di poche strutture turistiche e mal collegato ai principali aeroporti dell’isola, non riesce ad attirare una quantità di turisti adeguata al prestigio dell’opera. Anche il progetto di creare un circuito turistico integrato, che comprenda la Villa del Casale di Piazza Armerina, non ha sortito per ora i risultati sperati. Gianfranco Galan, ministro dei Beni Culturali all’epoca dei fatti, aveva già espresso forti perplessità su quella collocazione così marginale, attirandosi le critiche delle autorità locali nonché del governatore della Regione, decisi a ribadire la ‘proprietà esclusiva’ della Sicilia sul capolavoro.
La contrapposizione tra musei grandi e piccoli, tra città e territorio, tra istituzioni culturali di livello nazionale e locale è fisiologica in una nazione in cui il patrimonio culturale è così ricco e così capillarmente diffuso, ma trasformarla in un vero e proprio conflitto attraverso atteggiamenti ‘provinciali’ è certamente controproducente. Occorre in primo luogo adottare un’ottica in cui il bene artistico sia considerato il bene primario, che va tutelato a prescindere dal genere, dalla collocazione e dalla fama di cui gode: se le istituzioni culturali non fossero costrette a spartirsi le ‘briciole’ del bilancio statale, non ci sarebbe motivo di alimentare sterili polemiche sulla destinazione dei fondi e sulla difficoltà di attirare turisti. Inoltre l’uscita da questo tipo di logica campanilistica, che rende assai difficoltosa la circolazione di questi straordinari capolavori (si pensi ai Bronzi di Riace, attualmente in attesa della ristrutturazione del Museo di Reggio Calabria), ad esempio attraverso l’organizzazione di esposizioni temporanee e attentamente contestualizzate in altre città, avrebbe il duplice effetto di aumentarne il bacino dei fruitori e di fare pubblicità alla loro terra d’origine. Certo, ciò implicherebbe una progettualità culturale completamente nuova e una disponibilità di fondi ben diversa da quella attuale: ma si tratta di una strada che si dovrà intraprendere, se si vuole restituire alla cultura il posto e il ruolo che le spettano nel nostro paese.
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