È con grande piacere che ho accolto l’invito, per il quale ringrazio il Forum Cultura del Partito Democratico di Trieste, in particolare nella persona di Marina Coricciati, a intervenire a questo incontro dedicato a un tema di grande attualità e interesse comune qual è la cultura come strumento di rilancio economico, ma soprattutto civile e sociale, per le nostre città, e come fondamento di una nuova e più virtuosa società in cui alla logica del consumo a tutti i costi si sostituisca un assetto economico fondato sulla conoscenza, sui diritti, sulla bellezza, sul rispetto dell’ambiente e sulle produzioni intelligenti; in cui il lavoro torni ad essere non solo mezzo di sostentamento ma momento di arricchimento umano, di realizzazione personale e professionale, di accrescimento del capitale culturale che ognuno di noi ha ricevuto in retaggio dal passato e che abbiamo il diritto di fruire e il dovere di tutelare a beneficio delle future generazioni.

Quello che immaginiamo, quello a cui dobbiamo puntare per mettere in atto un vero cambiamento che ci consenta di dare risposte reali e durature alle molte incognite che ci pone il presente, è un nuovo modello di comunità, che passi dalle più recenti acquisizioni nel campo della sociologia, dell’urbanistica e della progettazione culturale in materia di smart cityness, ovvero nella realizzazione di un processo di rigenerazione urbana che si fondi sulla tutela dell’ambiente e della qualità della vita, sulla difesa del paesaggio e sulla razionalizzazione dei consumi energetici, sulla cittadinanza attiva, sulla ricostruzione di reti sociali e culturali all’interno del territorio per incentivare l’integrazione e prevenire la solitudine e la paura del diverso, sul talento giovanile e sulla collaborazione virtuosa tra i vari attori pubblici e privati per la tutela e la promozione, anche in chiave turistica, degli spazi, dei monumenti, dei paesaggi che rendono unico il nostro Paese e ne fanno un vero e proprio museo a cielo aperto, in cui in ogni angolo c’è qualcosa da scoprire, una reminiscenza del passato da raccontare, una tradizione o una produzione locale da far conoscere al mondo, insomma una miniera di beni materiali e immateriali su cui edificare – o riedificare – l’immaginario collettivo dei nostri territori.

Certo, per far questo occorre un progetto comune, una grande sinergia che includa gli operatori della cultura e della formazione, gli enti pubblici, i comitati e le forme di autorganizzazione dei cittadini, le strutture ricettive e produttive, specie per quanto riguarda il comparto enogastronomico e l’artigianato, ma anche nel campo del design, dell’innovazione e delle nuove tecnologie: occorre che tutti gli attori che insistono su un territorio si uniscano per ridefinirlo, riappropriandosi per primi della sua identità, del suo genius loci: e vorrei soffermarmi un momento su questa bella espressione latina, che identificava in origine il nume che nel mondo romano sovrintendeva ai luoghi abitati dagli uomini, proteggendoli, caratterizzandoli e rendendoli unici, ognuno diverso dall’altro, grazie ad una armoniosa combinazione di elementi naturali e di tradizioni, usanze e tecniche tipiche di ogni singola comunità, che sviluppava così un legame sacro con il luogo che identificava come casa.

Ecco, quindi, quando si parla (o si straparla) in termini allarmistici quando non apertamente razzisti di perdita delle nostre radici, contaminazione e dissoluzione della nostra identità culturale, bisogna tenere ben presente la distinzione essenziale, già tracciata da Bauman, tra senso di appartenenza e identitarismo aggressivo, un fenomeno che non è di alcun aiuto ma anzi nuoce alla reale tutela delle tradizioni e delle identità locali, riducendole a idoli svuotati di senso.

Platone nel Timeo parlava della dialettica tra topos e chora, ovvero tra la dimensione fisica dello spazio e la sua identità culturale. Molti sono gli studiosi, antropologi, filosofi, geografi che hanno scritto a proposito della progressiva perdita della chora, l’identità, quasi l’anima di un territorio, e questo processo non è affatto imputabile alla presenza straniera e migrante, quanto invece alla progressiva percezione del territorio stesso, avviata negli anni Sessanta e mai del tutto arrestata, «come valore di scambio, misurabile e commerciabile, finalmente globalizzabile e privato della sua identità e biodiversità» (sono parole del geografo Marco Maggioli).

È innegabile, infatti, che è proprio sulla scia della corsa al benessere che ha caratterizzato l’economia italiana nella seconda metà del Novecento che abbiamo rischiato di lasciare indietro, di perdere quasi, un patrimonio inestimabile che è l’anima dei nostri luoghi, visibile nei monumenti, negli antichi mestieri, nell’organizzazione e nella differenziazione agricola, architettonica e urbanistica dei territori. Quanti paesaggi sono stati sconvolti dal cemento, quanti siti e monumenti lasciati all’incuria e all’abbandono, quante tradizioni e quanti saperi artigiani e artistici sono scomparsi sull’onda della standardizzazione e della velocità imposte dall’economia di mercato?

Per fortuna, comunque, in ogni parte d’Italia, ogni giorno c’è chi lavora per recuperare questa bellezza, per riportarla alla luce e per diffonderne la conoscenza – anche grazie alle potenzialità offerte dalle nuove tecnologie e dai social network.

Ex spazi industriali diventano biblioteche, centri culturali o aree espositive; monumenti e luoghi abbandonati vengono restaurati e riaperti spesso grazie a iniziative che partono dal basso, dalle popolazioni stesse, attraverso associazioni, comitati civici, azionariato collettivo e crowfunding; contro lo scempio dei nostri paesaggi sono sempre di più le persone che si oppongono, chiedendo rispetto per la natura e per la bellezza del nostro Paese.

A volte, poi, questa nuova sensibilità verso quello che prima di tutto è un enorme complesso di beni comuni si trasforma in occasione di lavoro. Lavoro atipico, certamente, rispetto ai canoni del passato: spesso sono proprio i giovani, con le competenze accumulate in anni di studio e preparazione, nell’attesa di quel “posto fisso” che ormai sembra solo un relitto del secolo scorso, a rimboccarsi le maniche e costituirsi in cooperative, in associazioni o in piccole aziende per partecipare a bandi di gestione di beni culturali, per inventarsi un nuovo modo di organizzare e comunicare la cultura attraverso internet, per tenere aperti biblioteche e centri di aggregazione che altrimenti avrebbero già chiuso i battenti, complice la sempre crescente contrazione delle risorse a disposizione dei comuni e degli enti locali per offrire ai cittadini servizi sociali e culturali.

Lavoro attraverso la cultura significa dunque, prima di tutto, riscoprire lo spirito dei luoghi, conoscere la propria storia, le proprie radici, le espressioni artistiche, tradizionali ed enogastronomiche che caratterizzano il posto in cui viviamo, e saperne fare non un mero prodotto da vendere, ma il frutto di un lavoro a tutto tondo sul territorio, che valorizzi ogni aspetto, ogni possibile declinazione di quella bellezza che è la nostra più grande ricchezza e sulla quale, credo, possiamo e dobbiamo puntare per un rilancio del nostro Paese, per una crescita reale, stabile e soprattutto virtuosa.

La riflessione sulla bellezza come elemento costitutivo dell’identità del nostro Paese ha già condotto alla proposta, che io stesso ho sostenuto durante il mio impegno istituzionale, di inserire il suo riconoscimento in posizione di assoluta preminenza all’interno della nostra Costituzione, ovvero come un nuovo comma da aggiungere all’articolo I, che recita «La Repubblica Italiana riconosce la bellezza quale elemento costitutivo dell’identità nazionale, la conserva, la tutela e la promuove in tutte le sue forme materiali e immateriali: storiche, artistiche, culturali, paesaggistiche e naturali».

E potrebbe forse suonare ovvio sottolineare la funzione morale, sociale, educativa, civile insita al concetto di Bellezza, che ha condotto, a livello internazionale, a dichiarare le più belle manifestazioni della natura e della cultura esistenti sul pianeta «patrimoni dell’umanità»: ma si deve purtroppo constatare che l’Italia, nonostante detenga un assoluto primato nella lista UNESCO di questi siti e monumenti – potendo dunque essere considerata, senza timore di incorrere in un atteggiamento ‘narcisista’, il Paese più bello del mondo –, non sembra ancora pronta a prendere piena coscienza né della grande responsabilità che comporta la tutela di questo immenso patrimonio, né tanto meno dell’enorme potenziale che esso custodisce in termini di sviluppo sostenibile, occupazione qualificata, miglioramento della qualità della vita, ripresa economica – grazie, naturalmente, ad una maggiore sinergia, come già detto, con l’altro comparto primario nella nostra economia, il turismo.

E dunque, in questo nuovo assetto economico che vogliamo immaginare, primario deve essere l’investimento pubblico proprio su quello che chiamerei «lavoro culturale» – e ricorderete che a usare per primo questa locuzione fu Luciano Bianciardi, che così intitolò il suo romanzo del 1957 in cui scrisse che la cultura da sola «non ha senso se non ci aiuta a capire gli altri, a soccorrere gli altri, ad evitare il male»: ovvero, declinando al presente le parole dello scrittore, se essa non serve anche e soprattutto a diffondere integrazione, solidarietà, ascolto, rispetto per i beni comuni, e ad arginare le peggiori derive xenofobe e populiste che sui social sembrano quasi riecheggiare la polemica anti-intellettualista che accompagnò l’emergere del fascismo.

Comunque, se la vitalità del settore è già evidente, come ho detto poco fa, nello spirito d’iniziativa di tanti singoli professionisti o di cooperative e associazioni che intraprendono questo difficile percorso, è anche vero che non si può lasciare ancora l’intero comparto a questa nebulosa situazione di autoorganizzazione. Lo stato deve legiferare in sostegno dei lavoratori della cultura, dotandoli di un idoneo statuto lavorativo, di strumenti per tutelarsi dallo sfruttamento, dalla precarietà e dalla competizione sleale, insomma riconoscendo loro il ruolo essenziale che detengono nel rilancio del brand Italia attraverso la valorizzazione del patrimonio storico e artistico.

Lo sforzo delle istituzioni dovrebbe, in conclusione, essere quello di promuovere e sostenere un impegnativo salto di qualità, caricando di un ulteriore significato quella ‘valorizzazione’ dei beni culturali che è parte integrante dei compiti precipui dello Stato sanciti dall’articolo 9 della Costituzione.

«Bisogna che si cominci a insegnare, soprattutto ai giovani, che il patrimonio culturale non è un inutile fardello, ma è il veicolo determinante per formare le coscienze e il sapere dei nostri connazionali»: questo lo disse nel febbraio 2013 Dario Fo, mentre si usciva da un quinquennio in cui si era assistito alla maggiore contrazione della spesa pubblica per la cultura forse dall’inizio dell’epoca repubblicana.

Dobbiamo, quindi, ad ogni costo proseguire sulla strada del recupero del valore della cultura e archiviare definitivamente l’assurdo slogan per cui «con la cultura non si mangia»: pensiamo, solo per citare un esempio, che, stando al recente report Arts & economic prosperity, uno studio sull’impatto che l’industria culturale ha sull’economia degli Stati Uniti redatto dall’organizzazione non profit Americans for the Arts, il settore delle arti e della cultura, nella sola città di San Francisco, frutta ogni anno quasi un miliardo e mezzo di dollari e mantiene oltre 39mila persone con posti di lavoro full-time.

E, se vogliamo soffermarci un momento sui dati europei (ricordiamo che il 2018 sarà l’Anno europeo del patrimonio culturale), l’occupazione culturale rappresenta quasi il 3% del totale dell’Unione, impiegando circa 6,3 milioni di cittadini, e con numeri in continua crescita, come ratifica la recente ricerca dell’Eurostat Cultural statistics: l’Italia, con il suo 2,7% di occupati nel mondo della cultura, si mantiene nella media UE, ma è comunque indietro rispetto a paesi come Estonia, Lituania, Ungheria, Slovenia e molti altri; e questo è un chiaro segnale che occorre aumentare l’investimento in questo settore.

Ma dall’altro lato occorre anche abbandonare la visione, altrettanto perniciosa, che il nostro patrimonio sia soltanto una sorta di petrolio da sfruttare per ottenerne i massimi ricavi. Perché l’investimento nella cultura non solo porta crescita economica, ma soprattutto promuove un indotto di ben altro valore, quello di una coscienza collettiva che sempre più salvaguardi «la specificità italiana, nella contiguità, non solo storica ma civile e istituzionale, fra i cittadini e il patrimonio che a loro appartiene», come ha scritto Salvatore Settis.

La volontà di impegno civile che caratterizza i volontari e i lavoratori della cultura, spesso giovani e giovanissimi, anche a fronte di prospettive lavorative quanto mai precarie – pensiamo alla recenteesperienza del Plac, il Patto dei lavoratori culturali, presentato alla Camera lo scorso 2 febbraio da una rete di giovani professionisti della cultura, le cui istanze debbono essere ascoltate e accolte –, rappresenta a mio avviso il miglior simbolo della tenacia che da sempre ci caratterizza e ci permette di non rassegnarci al degrado e all’abbandono, ma di continuare in ogni contesto a lottare per la Bellezza e per la sua conservazione.


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