#ondesonore: lo Sferisterio di Macerata

#ondesonore: lo Sferisterio di Macerata

Questo post raccoglie il testo di una lezione sul tema “Mediterraneo” che ho tenuto a Macerata il 21 luglio 2016, in occasione dell’inaugurazione della cinquantaduesima edizione del Macerata Opera Festival. 

Innanzitutto vorrei porgere un sincero ringraziamento agli organizzatori e al pubblico di questa cinquantaduesima stagione del Macerata Opera Festival che oggi si inaugura; è con grande onore che ho accettato l’invito ad aprire questa rassegna così importante per la promozione della cultura operistica, che si svolge in una cornice d’eccezione come quella dello Sferisterio, patrimonio architettonico di straordinario valore che fin dal 1921 ha visto il suo palco calcato dai più grandi artisti e interpreti della lirica mondiale.

Ho accolto con grande interesse la proposta di portare a questa platea alcune riflessioni sul tema scelto per questa stagione, cioè il Mediterraneo inteso non solo come culla della nostra cultura e della nostra storia, ma anche e soprattutto come oikos comune e spazio di contatto e scambio tra nord e sud del mondo: si tratta di un argomento di particolare attualità e complessità, specialmente in una fase tanto critica dello scenario geopolitico internazionale, che ci chiama ad affrontare una delle più grandi emergenze umanitarie della storia del nostro continente.

Perché quello che ci sconvolge del movimento migratorio attuale, accanto e più della sua persistenza e della sua mole, è il modo drammatico in cui esso avviene, che comporta, per chi si mette in viaggio, un’altissima probabilità di perdere la vita: una caratteristica di questo esodo che ci riporta alla memoria l’immigrazione di massa dai Balcani che ha interessato il nostro Paese nei primi anni Novanta, sostanzialmente risoltasi, col tempo, grazie ad accordi bilaterali tra i Paesi di partenza e l’Italia; le immagini dei grandi sbarchi di Brindisi e Bari colpirono già all’epoca l’opinione pubblica scatenando panico e ondate di odio razziale, e in particolare la vicenda dell’attracco del Vlora con a bordo oltre ventimila persone disidratate e affamate – di cui cade tra pochi giorni il venticinquesimo anniversario – misero per la prima volta l’Italia di fronte al fenomeno della migrazione di massa, cogliendola gravemente impreparata a gestire un’emergenza di tali proporzioni anche a fronte del vuoto normativo che ancora caratterizzava la nostra legislazione sull’argomento.

I parlamenti e i governi che si sono susseguiti da allora hanno cercato in vari modi di legiferare in modo da regolamentare i flussi migratori: diversi sono gli approcci e le filosofie che si sono confrontati e scontrati durante questo percorso non ancora concluso.

La crisi economica non ha fatto, naturalmente, che peggiorare questo quadro, alimentando il disagio sociale e usando l’attuale flusso migratorio come un catalizzatore. Il magma di disinformazione e la violenza verbale ci mettono oggi in una condizione di particolare difficoltà; occorre riuscire a far recuperare all’opinione pubblica, oltre che la dimensione della solidarietà e l’attitudine all’accoglienza, la consapevolezza di un passato che ci ha visto migranti in terra straniera e che, ancora prima, ha già visto il Mediterraneo e la Penisola come crocevia di popoli e culture: una terra la cui attuale fisionomia culturale è frutto degli infiniti movimenti di genti che si sono susseguiti sulle acque e sulle coste del Mare Nostrum fin dagli albori della storia.

Già il grande storico tedesco Theodor Mommsen, vissuto tra il 1817 e il 1903, aveva scritto: «Sui lidi di quel mare Mediterraneo che, insinuandosi nella terraferma, forma il più vasto golfo dell’Oceano ed ora restringendosi per mezzo di isole o promontori, ora estendendosi ampiamente, unisce e separa ad un tempo le tre parti del mondo antico, fin dai tempi remoti si stabilirono genti varie le quali, se sotto l’aspetto etnografico e linguistico appartengono a stirpi diverse, storicamente formano un unico complesso».

Era già dunque chiaro nel XIX secolo, epoca che più di ogni altra ha visto svilupparsi le aspirazioni nazionali dei popoli europei – gettando allo stesso tempo i semi di idee nazionaliste e imperialiste che avrebbero condotto alle immani tragedie della prima metà del Novecento –, che nonostante le numerose differenze sussistenti tra le culture affacciate sul Mediterraneo, esse erano comunque da considerare come espressioni variegate, ma pur sempre strettamente connesse, di un fondamento e di una storia comune.

Popoli dalle origini, religioni e culture diverse, stanziatisi nel corso di secoli e millenni lungo le sponde settentrionali, orientali e meridionali del Mediterraneo, hanno contribuito alla nascita di una civiltà dalla ricchezza unica, che ha dato vita a numerose innovazioni tecnologiche, allo sviluppo della scrittura, dell’arte e del pensiero filosofico, all’attitudine per la conservazione della propria memoria storica che è presupposto fondamentale per la riflessione su sé stessi e per la crescita intellettuale e civile delle nazioni.

Il grande musicista catalano Jordi Savall ha dedicato e dedica la sua vita di artista a riscoprire, eseguire, far conoscere le musiche che, sempre in ascolto una dell’altra, sempre scambiandosi  testi, melodie, pratiche strumentali, hanno attraversato e ancora attraversano questa vastissima area geografica e culturale che chiamiamo il Mediterraneo: dalla sua Catalogna alle coste del Nordafrica, alla  Sicilia, alla Grecia, alla Turchia, fino all’Armenia e al Medio Oriente, dimostrando quanto profondi, antichi,  diffusi e tuttora vivissimi, siano i legami  musicali tra questi popoli, queste civiltà.

La ricchezza della civiltà mediterranea è legata infatti agli scambi ed ai rapporti che popoli diversi hanno saputo, nonostante tutto, mantenere ed incrementare nel corso dei secoli, anzi, è proprio nei momenti di maggiore sviluppo culturale di ogni regione del bacino del Mediterraneo che si sono concentrate le fasi di maggiore apertura alle altre culture.

Gli scambi ed i prestiti costanti che hanno arricchito il patrimonio delle civiltà del Mediterraneo rendono spesso difficile l’individuazione dei veri luoghi di origine delle più varie arti, tecniche e tradizioni. Ma quel che è certo è che il Mediterraneo è diventato lo scrigno nel quale si è sviluppato un così grande complesso di civiltà perché i popoli che vi si affacciano hanno saputo accogliere e migliorare le loro reciproche esperienze.

E questo vale anche per le fasi più antiche della civiltà europea: oggi, infatti, molti studiosi concordano nel sostenere che la rivoluzione neolitica, che ha visto l’uomo trasformarsi da cacciatore e raccoglitore in allevatore e agricoltore, sia stata trasmessa ai popoli del Mediterraneo orientale da genti arrivate verso la fine dell’ottavo millennio a.C. dal Vicino e Medio Oriente; e anche le prime organizzazioni statali della storia, fiorite nell’area egea verso la fine del terzo millennio a.C., sono nate sulla scia delle esperienze economiche e politiche dell’antica Mesopotamia e della valle del Nilo.

Secoli e secoli dopo, mentre in Europa si vivono le drammatiche fasi successive alla dissoluzione dell’impero romano, il Rinascimento arabo porta in Occidente fondamentali innovazioni tecniche e culturali; i dotti bizantini di religione ortodossa permettono la sopravvivenza di numerosi testi fondanti l’identità culturale europea, e li riportano in Europa innescando la nascita di quel grande moto ideale che è stato l’Umanesimo, che ha gettato le basi per la costruzione, nei secoli successivi, della grande République des lettres europea.

Con la nascita della società industriale e con le sue contraddizioni, le migrazioni sono divenute spesso l’unica occasione di sussistenza per i popoli dell’Europa del Sud, dove fenomeni come la crescita della popolazione e l’urbanesimo avevano condotto alla formazione di enormi masse di diseredati in cerca di lavoro.

Così gli abitanti del Mezzogiorno, in particolare del Sud italiano e della Grecia, si spostarono in massa verso i paesi del Nuovo Mondo: gli Stati Uniti, il Canada, l’America latina, l’Australia; dopo la seconda guerra mondiale, furono invece i Paesi del Nord Europa ad attirare italiani, greci, spagnoli, nordafricani e turchi. In questo modo il Mediterraneo perse la sua caratteristica secolare di luogo di attrazione dei movimenti migratori, e divenne un serbatoio di manodopera per lo sviluppo industriale dei Paesi forti. L’Italia è stata probabilmente, tra tutti i Paesi affacciati sul Mediterraneo, quella che ha contribuito maggiormente a questo flusso migratorio: le ultime stime parlano di oltre venticinque milioni di connazionali partiti in poco più di un secolo, tra il 1860 e il 1970.

Le loro storie di coraggio e disperazione hanno lasciato grandi tracce nella nostra cultura, nella letteratura e nell’arte; ancora oggi ci commuovono i versi di Italy di Giovanni Pascoli, le pagine di De Amicis e di tanti altri scrittori che hanno narrato alla nazione le vicende, le speranze, le sofferenze degli italiani oltreoceano; per non parlare, poi, delle vite spezzate di tanti migranti morti sul lavoro in terra straniera, come i duecentocinquanta minatori di Marcinelle.

Anche se oggi il saldo migratorio del nostro Paese ha un segno stabilmente positivo (che è poi la ragione principale per cui l’Italia non è ancora un Paese a crescita demografica zero), non dobbiamo scordare che sono ancora tantissimi i ragazzi, spesso iperspecializzati, che partono dalle nostre città alla volta di capitali europee per trovare l’occasione lavorativa che qui da noi non arriva, o per sfuggire a un mercato del lavoro che penalizza i più giovani con retribuzioni molto più basse e condizioni contrattuali molto più svantaggiate rispetto alle generazioni precedenti. Gli italiani sono ancora un popolo migrante, e il Mediterraneo è ancora crocevia di popoli.

Scrisse Pitagora, costretto, all’alba del primo millennio a.C., a lasciare la sua città natale: «se devi emigrare, salendo sulla nave, distogli lo sguardo dai confini che ti hanno visto nascere».

Ecco, spesso, quando ci si allarma di fronte a quella che i media non esitano a definire, con un linguaggio improprio, un’«invasione», si dimentica che chi giunge, dopo immani sofferenze, alla decisione di salire su una di queste carrette della disperazione, sfidando il mare con bambini e neonati, ha ormai lasciato alle sue spalle qualsiasi speranza di un futuro nella sua terra natale, si è spogliato di ogni identità per abbandonarsi alle onde di questo Mediterraneo che per noi è il mare delle vacanze, delle acque cristalline e delle spiagge famose, ma per chi è al largo, in attesa di soccorso, invece di essere il luogo di una nuova, antica identità, si trasforma sempre più spesso in una tomba d’acqua.

Come non sentirci responsabili noi stessi, se un mare che è sempre stato ponte tra popoli, fonte di cibo, di lavoro e di benessere, è oggi pieno di morti? Si tratta, nella maggior parte dei casi, di persone che fuggono dalla loro terra a causa di squilibri mondiali, da disuguaglianze che si stanno sempre più accentuando tra paesi ricchi e paesi poveri.

Molti, per fortuna, non si rassegnano a questo massacro: la marina italiana, le ong, i gruppi che si organizzano con imbarcazioni private per pattugliare il Canale di Sicilia, e poi chi sulla terraferma si occupa di accoglienza primaria – l’esempio più grande è ovviamente quello di Lampedusa, un vero e proprio faro di speranza –, le associazioni di volontariato, le numerosissime ONLUS che su tutto il territorio nazionale lavorano per la gestione delle residenze dei richiedenti asilo, cucinano pasti, si improvvisano mediatori culturali, fanno di tutto per facilitare l’integrazione dei migranti nelle comunità ospitanti: è un’enorme opera che avviene ogni giorno nel silenzio, se non nell’ostilità aperta dei molti che preferiscono alimentare l’odio e l’ignoranza piuttosto che cercare di comprendere e guardare oltre le banalizzazioni.

Troppo spesso non ci si ferma a pensare che i rifugiati che arrivano dal Vicino Oriente hanno perso tutto in una guerra che ha distrutto città fino a pochi anni fa prospere e bellissime così come ha annientato opere d’arte e siti archeologici di valore inestimabile

Uno dei massimi storici del Novecento, Fernand Braudel, definiva il Mediterraneo come il «cuore del Vecchio Mondo», e sosteneva che «il Mediterraneo non si è mai rinchiuso nella propria storia, ma ne ha rapidamente superato i confini», tanto che «la caratteristica più evidente del destino del Mare Internum è l’essere inserito nel più vasto insieme di terre emerse del mondo», nell’insieme del «gigantesco continente unitario» euro-afro-asiatico: «un pianeta per sé stesso, dove tutto ha circolato precocemente», e ancora i «tre continenti saldati insieme» nei quali gli uomini hanno trovato «il grande scenario della loro storia universale» e dove «si sono compiuti gli scambi decisivi».

È questa dimensione di scambio e di confronto tra civiltà, economie e culture diverse, questa funzione di tramite, di ciò che è ‘in mezzo’ e proprio per questo unisce, che ha storicamente definito l’identità del Mediterraneo sin dal nome con il quale esso era ed è conosciuto anche in lingue più o meno lontane da quelle romanze, dall’arabo «Mar Bianco di Mezzo», dall’albanese «il mare in mezzo alle terre», all’ebraico Hayam Hatikhon, «il mare di mezzo», dal berbero ilel Agrakal, «mare tra-terre».

Sono convinto che la chiave per abbattere questo muro di indifferenza sia, ancora una volta, la cultura.

La cultura intesa nella sua accezione più ampia, come diffusione della consapevolezza che la nostra identità non si è formata attraverso l’esclusione del diverso ma, al contrario, è il retaggio di secoli di integrazione. Chi conosce il nostro patrimonio culturale non può non notare quanto esso sia costituito da un vero e proprio crogiuolo di stili e linguaggi diversi: i resti archeologici delle colonie fenicie in Sardegna e delle città della Magna Grecia; i toponimi arabi in Sicilia; le comunità arbereshe diffuse nel Meridione, storico retaggio della fuga albanese dall’avanzata turca nel XVI secolo; il gotico francese, il barocco spagnolo delle nostre più belle chiese e cattedrali: non si può parlare di cultura italiana senza citare una costellazione di riferimenti e connessioni con le altre culture del Mediterraneo.

E, d’altronde, il linguaggio dell’arte, universale e immediato, è quello che più si presta a comunicare la necessità, per la nostra società, di rifiutare i pregiudizi che ci spingono alla lotta contro il diverso e ci fanno deviare l’attenzione dalle vere emergenze a cui il nostro Paese deve trovare risposta: quella educativa, quella occupazionale, quella dell’illegalità ancora troppo diffusa, che intacca anche il mondo della politica e dell’imprenditoria.

Il linguaggio dell’arte ha il potere di riconnetterci con un presente complesso, di mostrarci le infinite sfumature di una realtà che crediamo monolitica ma che invece è fatta di milioni di casi, di milioni di vite: pensiamo a un capolavoro come Fuocoammare, miglior film a Berlino 2016, in cui Gianfranco Rosi racconta il lavoro del medico Pietro Bartòlo al poliambulatorio di Lampedusa; alla Porta che guarda l’Africa di Mimmo Paladino, installata sul promontorio più a sud dell’isola, e al Museo delle Migrazioni lì recentemente inaugurato; al volume fotografico Europa, pensato per i migranti e i richiedenti asilo e presentato pochi giorni fa al Festival Cortona on the Move; ai versi commoventi di Alda Merini, ispirati dall’ennesimo naufragio, dai corpi dei bambini che arrivano sulle spiagge di un mare che dovrebbe restituire solo tronchi e conchiglie: «Così, figli miei, / una volta vi hanno buttato nell’acqua / e voi vi siete aggrappati al mio guscio / e io vi ho portati in salvo / perché questa testuggine marina / è la terra / che vi salva / dalla morte dell’acqua».

Per restare alla musica, e in particolare alla musica operistica, non è possibile dimenticare la felicità inventiva, la travolgente forza ritmica, l’intelligenza dei caratteri che Rossini ha saputo creare nelle sue due opere più ‘mediterranee’, Il Turco in Italia e, dove ogni tensione, ogni conflitto, si risolve nel gioco, nello scherzo, nella reciproca accettazione dell’altro da sé, anche grazie ad un brillante e saggio protagonismo femminile.

E quando nel 1871 l’Egitto inaugurò il Canale di Suez, volle celebrare l’avvenimento con la commissione – davvero faraonica per quanto riguarda il compenso – di una nuova opera a Giuseppe Verdi: nasce così Aida, dove, una volta ancora, Verdi contrappone i sentimenti privati, quelli che legano la schiava Aida e il militare Radamèes, alla ragion di stato, alla sua logica dura e spietata, che non ammette cedimenti e tregue. In nome del loro amore, Aida e Radames moriranno assieme: lei etiope, lui egiziano, hanno commesso quello che appare agli occhi delle rispettive classi dominanti un peccato mortale: innamorarsi anche se appartengono a due popoli nemici, in guerra.

Il Mediterraneo quindi come una grande entità sovranazionale, unita e forte delle sue specificità e differenze, inclusiva e attiva nel contrastare i fenomeni di radicalizzazione religiosa e nel prevenire lo scontro tra culture: a questo obiettivo dovrebbe tendere, ora più che mai, il nostro Paese; lungi dal concentrarsi soltanto sulle emergenze che provengono dalla sponda sud, è tempo di attuare una politica internazionale più lungimirante, che tenga conto anche delle opportunità che ci giungono da questa zona, come dimostra il fatto che il volume degli scambi economici tra l’Italia e l’area mediterranea è in costante ascesa, avendo toccato lo scorso anno i 54 miliardi di euro. Serve dunque, come ha detto anche il presidente del Senato Grasso in occasione di un seminario sul Mediterraneo tenutosi nel maggio dello scorso anno, «una strategia politica, di sicurezza ed economica, ed una serie di investimenti infrastrutturali necessari a valorizzare la posizione geografica del nostro Paese, che del Mare nostro è cuore e anima».

Ma questo dovrebbe essere uno degli obiettivi primari anche per l’Unione Europea, che nella sua doppia vocazione, mediterranea e atlantica, e nella collaborazione di tutti gli Stati membri alla gestione delle crisi, in qualsiasi parte del continente esse avvengano, dovrebbe ritrovare una delle sue principali ragioni di esistere, specie in una realtà che si avvia a divenire sempre più multietnica e iperconnessa, in cui a nessuno sarà più consentito di rinchiudersi nel suo orto e ignorare ciò che accade intorno.

L’Unione Europea ha dato, al contrario, in questi ultimi anni l’immagine di un’istituzione appiattita su una dimensione aridamente economicistica, nella quale sembrano venute meno sia una progettualità di più ampio respiro, sia la capacità di slanci ideali, e che – soprattutto dopo il fallimento del progetto di Costituzione Europea – non sembra avere più nulla da dire al di là dell’adesione incondizionata al modello dell’austerity. Questo si riflette anche sull’incapacità, se non addirittura sull’assenza di volontà, di affrontare la grande questione dell’accoglienza dei migranti, che sembra lasciata all’iniziativa, svolta peraltro in condizioni di costante emergenza, di quei Paesi che sono maggiormente esposti al fenomeno per ragioni geografiche. Si parla spesso della necessità di un passo successivo verso l’unione politica come soluzione all’attuale situazione di impasse, in questo così come in tanti altri ambiti che riguardano, o almeno dovrebbero riguardare, tutti i cittadini europei; sarà tuttavia molto difficile compiere quel passo in assenza di un progetto innanzitutto culturale che si leghi alla costruzione europea e ne definisca gli scopi, gli ideali, l’identità. Per questo c’è oggi bisogno di un forte momento di riflessione sull’identità culturale europea, come presupposto e punto di partenza per un’idea di Europa che vada oltre l’unione monetaria e la dimensione economico-burocratico-normativa, e che sappia indicare all’Unione una direzione: che possa essere, per così dire, una ‘bussola’ anche nella gestione di questioni quali quella, particolarmente complessa e delicata da tanti punti di vista, rappresentata dall’accoglienza dei migranti.

E vorrei aggiungere che, se l’identità culturale europea è formata innanzitutto dalle due grandi eredità ebraico-cristiana e greco-latina, che nel corso dei secoli del Medioevo e poi dell’Età moderna e contemporanea hanno contribuito alla creazione di una civiltà dalla straordinaria ricchezza intellettuale e artistica, nella quale sono state elaborate le tre grandi visioni del mondo che hanno forgiato l’uomo occidentale: quella della spiritualità religiosa, quella della speculazione filosofica e quella del pensiero scientifico. Se questo è vero, se questa è la nostra storia, non può essere concepibile un’Europa senza quello che ancora Braudel chiamava «l’altro Mediterraneo»: «quello che si articola lungo le sponde sahariane del Mare Interno, dal Vicino Oriente alle Colonne di Ercole», e la cui storia «mette in causa altri paesaggi e altre realtà umane, diversi dai paesaggi e dalle realtà umane del Mediterraneo classico, quello dei Greci e dei Romani, quello che diventerà l’Occidente, il nostro Mediterraneo».

Ormai molti anni fa Aldo Moro – di cui in questo 2016 ricorre il centenario della nascita – disse che «Nessuno è chiamato a scegliere tra l’essere in Europa e essere nel Mediterraneo, poiché l’Europa intera è nel Mediterraneo». Straordinaria è l’attualità di questa frase: oggi più che mai, l’Europa non può rinunciare alla sua missione di integrare le differenze in un grande soggetto politico coeso e solidale all’interno e all’esterno.

Il sogno europeo era quello di un sistema di ideali basato sulla pace tra le sue nazioni, sulle libertà e sul rispetto dei diritti dei cittadini. L’Europa deve continuare a essere punto di riferimento per coloro che fuggono dalle guerre, dalle persecuzioni etniche e religiose, dalle carestie e dal sottosviluppo, e la politica dell’accoglienza deve essere lo specchio in cui trovare riflessa la luce di questi ideali, che ci hanno consentito di vivere sessant’anni di pace e sviluppo dopo la più grande e devastante guerra della storia umana.

Dobbiamo, quindi, perseverare nella difesa di tali valori e nella loro diffusione, lottando contro le forze centrifughe e disgregatrici alimentate dai nazionalismi, dalle intolleranze che si diffondono purtroppo in molti Stati europei.

Vorrei concludere queste riflessioni citando un discorso pronunciato da Alcide De Gasperi, che del sogno europeo fu uno dei padri fondatori: «Per resistere – scriveva il grande statista – è necessario ricorrere alle energie ricostruttive ed unitarie di tutta l’Europa. Contro la marcia delle forze istintive e irrazionali non c’è che il supremo appello all’istanza della nostra civiltà comune: costituire questa solidarietà della ragione e del sentimento della libertà e della giustizia, e infondere all’Europa unita quello spirito eroico di libertà e di sacrificio che ha portato sempre la decisione nelle grandi ore della storia».

È solo ritrovando questo coraggio, questo spirito di sacrificio, che potremo costruire un futuro più equo, più solidale, più inclusivo, in cui la cultura sia la base sulla quale ricostruire un ideale comune di pace e cooperazione e in cui il Mediterraneo torni a essere il crocevia di scambi e relazioni paritarie, dove ogni porto che vi si affaccia sia, come ha scritto Umberto Saba, «una porta aperta ai sogni».

L’auspicio deve essere quello di un «Mediterraneo delle culture», con l’obiettivo di realizzare una ideale ‘comunità culturale’ nella quale l’incontro e lo scambio tra culture anche distanti possa ambire a dare un contributo alla costruzione, nell’Europa di domani, di società basate sulla condivisione delle conoscenze e delle opportunità, e sulla ricerca – lontano da ogni conflittualità – del bene comune.


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