Qualche giorno fa, mi ritrovo a curiosare nelle grandi sale espositive dell’Apple Store di Soho, Lower Manhattan, New York City. Non è un museo d’arte contemporanea, né una biblioteca, né tantomeno un istituto culturale o una fondazione scientifica. Eppure, osservando il mondo Apple da vicino, un concentrato di tecnologia in quel palazzetto con tanto di frontone classicheggiante (era un vecchio e illustre Ufficio Postale), riesco a capire l’America di questi ultimi anni.

Comprendo un Paese capace di mettersi in discussione, di indagare le nuove frontiere, di sperimentare, di rivoluzionare sia gli stili di convivenza civile che i modelli del fare politica.

La mia ultima esperienza newyorkese, per di più, coincide con la rielezione di Obama. Ho visto coi miei occhi l’entusiasmo di una società che vuole costruire un futuro differente nei confronti un nuovo ciclo di quattro anni di governo “democratico”. Una società che vuole e può credere in un nuovo ruolo degli Stati Uniti.

Non c’è dubbio che la crisi finanziaria abbia posto la politica di fronte a scelte straordinarie, in ogni campo; ma la cosa che più stupisce è che, nonostante le immense difficoltà, emerga la continua voglia di misurarsi con il cambiamento.

Da una parte, è tangibile l’interesse innato per le grandi trasformazioni tecnologiche; dall’altra, il bisogno di fermarsi a capire quali direzioni prendere. Sino a poco tempo fa (fatico a misurarmi con quelle che sono le unità di misura del tempo: anni, mesi, giorni?) tutte le discussioni erano orientate dal dominio della tecnologia, mentre adesso nei discorsi della gente, nei articoli di giornale, dai più dotti ai più popolari, quello che emerge è una nuova parola chiave: i contenuti (a proposito, perché nel bel manifesto in difesa della cultura, promosso da il Sole 24 ore, non inserire un punto sulla valorizzazione dei contenuti?).

Questa forte capacità progettuale degli States, spostando lo sguardo in direzione del nostro Paese, non può che farne risaltare le insormontabili differenze. L’Italia appare allora come un paese immobile, incapace di qualsiasi lungimiranza e di concepire pensieri coerenti intorno al proprio avvenire. Negli occhi di ognuno di noi affiora un senso di rassegnazione verso comportamenti “pubblici” che dovrebbero farci indignare. E’ come se fossimo privi di interesse, di curiosità verso i grandi cambiamenti che abbiamo di fronte. I 2 milioni di giovani che non cercano lavoro sono il dato più disperato di una società che non crede nel suo futuro. Non potendo decidere nulla, svuotati progressivamente del loro diritto fondamentale – quello al lavoro – così come del merito, delle scelte e, in ultimo, della costruzione della propria felicità, guardano senza alcuna passione a ciò che accade.

La responsabilità di questo scempio è certamente da ricercare nelle classi dirigenti del paese, incapaci di indicare un modello di crescita sostenibile, inette a cogliere le sfide dell’innovazione e a rendere i cittadini partecipi delle trasformazioni in atto. Anche se questi mutamenti dovessero costituire un dramma generazionale, c’è bisogno di validi registi e di attori protagonisti. Non certo di un pubblico distratto.

[in Huffington Post, 16 novembre 2012]


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