Questo articolo raccoglie il testo dell’intervento che ho pronunciato in occasione del convegno “La scuola come infrastruttura nazionale“, tenutosi a Roma presso l’Istituto della Enciclopedia Italiana il 28 novembre 2017
La scuola è un pilastro imprescindibile della struttura di ogni società. Dovremmo dire che è il perno fondamentale intorno al quale tutto il resto ruota. Il luogo in cui, più di ogni altro, i nostri figli trascorrono il loro tempo fuori dalle mura domestiche; dove si formano, crescono, creano, soddisfano la loro curiosità e sete di sapere, si liberano dalla strada, dalla fame, dalla solitudine, dalla povertà e dall’isolamento. Sempre si dice, a proposito di ogni problematica di natura culturale e sociale, che per risolverla bisogna “partire dalla scuola”. E allora, qual è il ruolo della scuola oggi?
Nei decenni del secondo dopoguerra la scuola italiana ha svolto un lavoro preziosissimo e capillare per sottrarre all’analfabetismo e all’ignoranza generazioni di bambini e ragazzi; per unificare il paese attraverso la diffusione del sapere e di una cultura nazionale condivisa; per combattere le diseguaglianze sociali e territoriali offrendo a tutti la possibilità di un’istruzione, in media, di grande qualità; per favorire la mobilità sociale. Dove c’era la scuola arrivava un’opportunità di progresso umano e civile, uno strumento per sviluppare un percorso di crescita individuale e collettivo, per offrire una possibilità di miglioramento per tutti. C’era quindi nell’idea di scuola, un’idea, una visione del Paese.
Oggi la scuola, indebolita da tagli e delegittimata nel suo ruolo, si prepara ad affrontare antiche piaghe e nuove, difficili sfide. Antiche piaghe, come quella dell’abbandono scolastico nelle periferie geografiche e sociali del paese, dell’obsolescenza delle strutture, della mancanza di strumenti adeguati per la didattica di base e per quella più innovativa, della limitatezza, in molte aree del paese, dei servizi offerti. Ma anche nuove sfide, come quella dell’integrazione dei bambini di origine straniera nel rispetto e nella valorizzazione delle specificità e della ricchezza di ciascuna delle culture di cui sono portatori, dell’apertura a un mondo che cambia sempre più celermente, a un sapere che si arricchisce e diffonde con grande rapidità grazie alle nuove tecnologie ma che pone, al contempo, inedite problematiche.
La realtà della scuola di oggi, come emerge anche chiaramente dai dati che abbiamo raccolto nell’Atlante dell’infanzia a rischio, che Treccani ha curato insieme a Save the Children e che è in libreria da pochi giorni, ci dice che queste sfide, soprattutto in alcune parti del paese, la scuola le sta in ampia misura perdendo.
Rischia sicuramente di perderle nel Mezzogiorno, dove quotidianamente si confronta con la drammatica piaga sociale della povertà. I numeri della ripartizione geografica delle famiglie italiane in povertà relativa ci dicono che queste sono in media il 18,8% in Italia (dato già allarmante), e che di queste il 13% vive al Nord, il 15,7% al Centro e il 27,9% al Sud. In Calabria e in Sicilia è povero quasi un bambino su due. Una mappa, quella della povertà, sostanzialmente sovrapponibile a quella relativa alla più grave delle sconfitte che il sistema scolastico sperimenta: l’abbandono scolastico. Un fenomeno che per fortuna registra un calo, dal 20,8% del 2006 all’attuale 14,7%, che però, come sosteneva la stessa ministra Fedeli nel giugno scorso, è ancora troppo alto e, soprattutto, è concentrato in alcune aree del paese: 24% in Sicilia e Sardegna.
Ma c’è un altro fenomeno in forte crescita nel paese e che tanti punti di contatto ha con il tema che stiamo affrontando qui oggi: il numero crescente di giovani che non studiano e non cercano un lavoro, e che nel Mezzogiorno sono più di uno su tre (34,2%).
Non sono purtroppo solo i problemi della povertà e della mancanza di lavoro a rendere difficile il contesto in cui la scuola opera nel Mezzogiorno. In più occasioni mi è capitato di fermarmi a riflettere sul modo in cui, a proposito del Sud Italia, si parla di desertificazione, limitandosi abitualmente a considerare solo i fenomeni economici o demografici (desertificazione industriale e umana). Invito invece a soffermarsi sul grave impoverimento che il Sud sperimenta dal punto di vista culturale e sulle conseguenze che questo ha per lo sviluppo umano prima ancora che economico nell’epoca della società della conoscenza. Secondo i dati Istat riportati nell’annuario statistico 2016, infatti, al Sud mancano le biblioteche (a Nord 24 ogni 100mila abitanti, al Sud 19 ogni 100mila); si fruisce meno della cultura e si guarda più TV (Sud 93,4%; Nord 91,2%; Centro 92,6%), si leggono pochi giornali (Nord Est 52,9%: Nord Ovest 48,3%; Centro 45,4%, Sud 33,6%, Isole 37,1%), si leggono pochi libri (si dichiarano lettori nel tempo libero: Sud 27,5%; Isole 30,7; Centro 42,7; Nord-ovest 48,5%; Nord-est 48,7%). Al Sud il 70,7% delle persone dichiara di non aver letto nemmeno un libro negli ultimi 12 mesi. Si pubblicano pochi libri: 256 editori tra grandi, medi e piccoli a fronte dei quasi 800 del Nord e dei 430 del Centro. Si usa meno internet: 55% nel Mezzogiorno, contro il 67,6% nel Nord-ovest, il 66,9 nel Nord-est e il 66,4% al Centro.
Di fronte a questi dati l’azione della scuola andrebbe potenziata, soprattutto nelle aree più difficili, nelle periferie, nei luoghi dell’emarginazione. Bisognerebbe investirci risorse importanti, consapevoli che essa è la leva principale che abbiamo a disposizione per scardinare lo stato di cose che abbiamo appena descritto. Constatiamo invece che l’offerta pedagogica e formativa appare spesso diseguale a livello delle singole regioni, province, comuni. Modelli di scuola teoricamente più ricchi, con più tempo pieno, più servizi (mense, biblioteche, palestre), più didattica innovativa capace di includere, sono insediati in realtà del Centro-Nord già floride dal punto di vista economico, sociale, culturale, mentre una discreta maggioranza di scuole del Sud presenta modelli più impoveriti, in contesti nei quali gli enti locali e il capitale sociale raramente riescono a stimolare o ad arricchire l’offerta educativa della scuola. Una contraddizione in termini che contribuisce a riprodurre i divari e le diseguaglianze esistenti fin dai primi anni di vita, alimentando il fallimento scolastico e il circolo vizioso delle povertà.
Il tempo pieno, ad esempio, importante fattore di crescita per i bambini se accompagnato a una didattica innovativa in ambienti scolastici idonei, è un servizio che viene offerto in maniera complessivamente modesta su tutto il territorio nazionale – devono farne a meno il 68% delle classi della scuola primaria – ma che è quasi inesistente in alcune regioni del Sud.
A chi, e io sono tra questi, guarda con favore all’idea di una scuola aperta tutto il giorno, sia ai ragazzi che al territorio e alla comunità di riferimento, di cui dovrebbe diventare un centro di aggregazione e propulsione, pare assurdo che il 92% delle classi in Sicilia e Molise, l’86% in Campania e l’83% in Puglia non offrano il tempo pieno. In province a forte rischio di esclusione sociale come Napoli, Reggio Calabria e Palermo, dove la scuola può fare davvero la differenza, il servizio è garantito ad appena una classe su dieci. Stesso discorso per le mense, importante momento educativo e di socializzazione, di cui vengono private percentuali altissime di alunni in Sicilia (80%), Puglia (73%), Molise (70%), Campania (65%) e Calabria (63%). E che si tratti di servizi importanti lo suggerisce la correlazione tra questi dati e quelli relativi alla dispersione scolastica: le regioni più penalizzate in quanto a disponibilità di tempo pieno e di mense sono le stesse dove si registrano i picchi di abbandono precoce.
Allontanandoci dagli scenari sociali e concentrandoci su quella che è la specifica funzione formativa della scuola, incontriamo l’altra grande sfida con cui essa si confronta oggi: le profonde trasformazioni che la nostra società sta vivendo e che pongono le nuove generazioni di fronte a scenari inediti sia sul piano delle forme e delle modalità di apprendimento, sia sul piano delle prospettive occupazionali, con la messa in discussione di percorsi e garanzie dati per acquisiti dalle generazioni precedenti. Come ha scritto Roger Chartier, quando si parla, in tale contesto, del ruolo della scuola ci si trova spesso di fronte a due posizioni fortemente contrapposte: quella per la quale la formazione scolastica serve innanzitutto a trovare lavoro (o, rovesciando la prospettiva, a formare lavoratori qualificati per quanto richiede il mercato) e quella per la quale l’obiettivo dovrebbe essere invece la formazione della persona (o, meglio ancora, dei futuri cittadini); un’alternativa che potremmo schematicamente riassumere nella duplice formula della formazione come addestramento e della formazione come educazione. Due funzioni che ritengo possano essere raggiunte insieme e che contestualmente andrebbero perseguite.
Come già rilevato in merito alla sua funzione sociale, anche nell’adempimento del suo compito sul fronte della formazione, la scuola sembra in difficoltà, sia che si discuta di addestramento sia che si parli di educazione. Osservando la scuola italiana di oggi si ha l’impressione che non solo non prepari al mondo del lavoro, ma che nemmeno si riveli adeguata a formare i ragazzi sul piano propriamente culturale, anche quando questi ragazzi provengono dalle scuole più rinomate. Come ha sottolineato qualche tempo fa Luca Ricolfi, che cito, «al giorno d’oggi, almeno la metà degli studenti non ha assolutamente, neppure alla lontana, la preparazione di base che – in teoria – dovrebbe possedere in virtù del certificato che esibisce. Spesso – continua – non ha neppure la preparazione che ci si aspetta da chi si è fermato alla scuola media inferiore. E in un numero di casi tutt’altro che trascurabile non ha nemmeno le competenze che, sulla carta, dovrebbero essere trasmesse e garantite dalla scuola elementare».
Nell’epoca in cui, grazie alle nuove tecnologie, l’accesso alle informazioni diviene estremamente semplice e immediato, alla scuola spetta il compito da un lato di offrire gli strumenti cognitivi per orientarsi nel mare delle informazioni disponibili, di distinguere le fonti e giudicare l’accuratezza del sapere che viene offerto, dall’altro di abituare i ragazzi alla concentrazione e all’applicazione nello studio, alla fatica dell’apprendimento, di dare loro un metodo, di imporre la disciplina dello studio.
Credo che sia decisivo recuperare il valore dello studio e dello sforzo che esso presuppone nel momento in cui l’estrema facilità dell’accesso alle informazioni può dare l’illusione di un altrettanto facile possesso delle conoscenze: che richiedono invece di essere, da un lato, criticamente vagliate – e questo diviene importantissimo di fronte ai rischi di appiattimento comportati dalla cosiddetta democratizzazione del sapere –, e dall’altro di essere contestualizzate in un sistema organizzato, la cui acquisizione non può fare a meno del momento della memorizzazione, e quindi, appunto, dello studio.
Perché quest’ultimo sia efficace è necessario tuttavia provare ad invertire il circolo vizioso che ha visto negli ultimi decenni un progressivo abbassamento del livello degli studenti di scuola, quindi degli universitari: e provare invece a riposizionare in alto l’asticella; a chiedere agli studenti (a scuola così come all’università) uno sforzo maggiore, che spesso si rivelerà alla loro portata; a non rinunciare a ciò che può apparire, a prima vista, troppo ‘difficile’, come purtroppo oggi non soltanto si tende a fare – in parte inevitabilmente, a seconda dei diversi contesti –, ma si comincia anche a teorizzare, ed è questo che va assolutamente respinto: il risultato ideale non sempre si potrà raggiungere, anzi forse il più delle volte ciò non sarà possibile; ma l’obiettivo deve restare quello, perché l’alternativa non può non tradursi, sul lungo periodo, in una rinuncia alla serietà, al rigore e in definitiva alla qualità dell’insegnamento. Chi vincerà la sfida che la contemporaneità ci pone di fronte? Vinceranno la bravura e il merito o la mediocrità? Potrebbe sembrare la domanda di una cultura conservatrice, ma deve diventare invece una certezza condivisa perché la vera sfida si giocherà sulla capacità di confrontarsi con gli studenti che avranno seguito, in tutti i Paesi, una formazione presso luoghi dove didattica e formazione sono al centro delle priorità e delle scelte politiche.
Costruendo con pazienza questa scelta, la scuola italiana non deve rinunciare a quanto di buono – e anche di peculiare nel confronto con i sistemi scolastici degli altri Paesi – ha saputo costruire, e non deve rinunciare ad essere ambiziosa e rigorosa, aprendosi alle innovazioni con la solidità che le dà la consapevolezza di quanto di positivo fatto finora, mostrando quella capacità inclusiva segno di una vera visione democratica del sistema formativo.
L’impegno che Treccani ha deciso di dedicare, già da molti anni, al mondo della scuola si concretizza in una serie di iniziative che, se da un lato stanno notevolmente ampliando i confini del tradizionale impegno culturale dell’Istituto, dall’altra rispondono anch’essi – e danno anzi piena realizzazione – alla sua missione istituzionale quale è enunciata nello statuto: non soltanto «la compilazione, l’aggiornamento, la pubblicazione e la diffusione della Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti iniziata dall’Istituto Giovanni Treccani, e delle opere che possono comunque derivarne, o si richiamino alla sua esperienza», ma anche – più in generale e in misura non meno importante – contribuire agli «sviluppi della cultura umanistica e scientifica» e rispondere a «esigenze educative, di pianificazione, di ricerca e di servizio sociale».
La più importante iniziativa dell’Istituto dedicata alla scuola è la creazione di una piattaforma per la didattica, chiamata Treccani Scuola, che nasce con lo scopo di fornire sia ai docenti che agli studenti gli strumenti e i contenuti per poter partecipare attivamente all’innovazione del mondo della scuola. L’idea che ha ispirato il progetto è quella di creare materiali digitali di supporto ai docenti e agli studenti, provando a confrontarsi con le cosiddette classi digitali: classi pensate per gestire le relazioni e le comunicazioni tra docenti e studenti tramite percorsi e strumenti di approfondimento, di orientamento, nei quali è possibile ospitare i contenuti didattici, gli appunti e le valutazioni della classe; si tratta insomma di un archivio, di una digital library accessibile sempre e ovunque, di tutte le esperienze accumulate durante gli anni della formazione scolastica. Il docente avrà la possibilità di associare a ogni classe dei percorsi multimediali, che costituiscono delle vere e proprie lezioni digitali, basate su un modello di didattica interattiva e collaborativa. Queste non andranno, naturalmente, a sostituire le lezioni in aula, il ruolo dei docenti e dei libri, bensì ad affiancarle in qualità di strumenti di supporto o anche come materiale didattico autonomo per lo studio a casa. E i materiali con i quali il docente potrà costruire tali percorsi saranno forniti da una banca dati – un archivio di conoscenze – selezionata e certificata da Treccani, dagli enti culturali e dalle istituzioni che partecipano all’iniziativa.
La transizione all’insegnamento digitale rappresenta, come è evidente, un passaggio estremamente delicato. Tra gli intellettuali più attenti a questo aspetto vorrei ricordare in particolare Roberto Casati, che soprattutto nel suo libro “Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per continuare a leggere” ha richiamato la nostra attenzione, senza alcuna preclusione nei confronti del digitale in sé e degli innumerevoli benefici che esso può apportare, sui rischi connessi a una ricezione e applicazione acritica degli strumenti digitali in ogni aspetto della nostra vita e in particolare nell’ambito dell’apprendimento: le due tesi più forti e controverse sono quella per la quale gli strumenti digitali non potranno mai sostituire l’insegnante (e su questo credo che possiamo tutti concordare); e quella per la quale il libro di carta è assolutamente insostituibile dal punto di vista cognitivo, perché protegge la nostra risorsa mentale più preziosa, vale a dire l’attenzione, che sarebbe invece disturbata – o, come dice Casati, addirittura «aggredita» – dall’impiego del digitale.
È difficile stabilire oggi se e quanta ragione abbia Casati nel sostenere quest’ultima tesi. Siamo comunque in presenza di un dato di fatto: molte ricerche indicano che nel 2019 il 50% di tutti i corsi di scuola secondaria si svolgerà online. Siamo di fronte dunque a un mutamento che è già in atto e che è ad ogni evidenza inevitabile, come ogni cambiamento che è stato introdotto dall’innovazione tecnologica nella storia dell’umanità: è bene, dunque, essere consapevoli di ogni eventuale controindicazione, ma, piuttosto che opporsi al nuovo, è senz’altro più utile cercare di indirizzarlo in modo da massimizzarne i vantaggi e ridurne al minimo i possibili svantaggi. Insomma, più che dire «sì» o «no» al digitale, sarà più utile e giusto chiedersi «quale» digitale vogliamo introdurre nelle nostre scuole. Ecco perché l’impegno di Treccani è proprio quello di far sì che il passaggio non sia causa più o meno diretta di un qualsivoglia ‘peggioramento’ nella qualità dell’apprendimento, ma al contrario possa essere occasione di un grande passo in avanti verso un’offerta formativa più efficace e più adatta al diverso contesto psico-sociale nel quale essa dovrà necessariamente avvenire. La cultura non può essere identificata con una quantità di nozioni, per cui più ne hai più sei colto; la cultura continuerà ad essere quella capacità critica in grado di elaborare e distinguere la qualità dalla quantità.
Non si tratta, in definitiva, di fare le stesse cose con mezzi diversi, bensì di un vero e proprio cambio di paradigma: è stato detto in effetti che l’e-learning è un nuovo paradigma di apprendimento individuale e collettivo abilitato dalla tecnologia, ma non determinato da essa: per essere realmente efficace, la formazione online non deve proporre soltanto l’innovazione digitale, ma anche – contestualmente – nuove metodologie e nuove forme di apprendimento. Vorrei fare a tale proposito un solo esempio: secondo recenti studi, i programmi di formazione più riusciti sembrano essere quelli del cosiddetto blended learning, che integrano la formazione in aula con quella online. Nel blended learning il docente deve continuare ad avere un ruolo fondamentale – e in questo ha senz’altro ragione, quindi, Roberto Casati –, ma non più come fornitore di nozioni, ma come guida all’interno del flusso informativo. Nel modello del blended learning il docente aiuta il discente a valutare le informazioni, a risolvere i problemi, ad analizzare e sintetizzare i concetti.
Questo, dal mio punto di vista, vuol dire valorizzare il ruolo dell’insegnante, restituendogli quella funzione di guida che dovrebbe avere nel percorso formativo e di crescita di ciascun alunno. Purtroppo, il ruolo cruciale degli insegnanti è stato negli ultimi anni messo fortemente in discussione. Gli insegnanti, peraltro sminuiti dal punto di vista retributivo, sono stati oggetto di un processo di delegittimazione da parte delle famiglie e della società nel suo complesso ingiusto e controproducente. Sono stati anch’essi travolti da un processo di delegittimazione dell’autorità che si è trasformato in delegittimazione dell’autorevolezza. Di questo processo tutti noi stiamo cominciando a pagare le conseguenze, che saranno in futuro ancor più drammatiche. Restituire centralità alla scuola, alla funzione docente e alla solidità del sapere e del percorso di acquisizione delle conoscenze credo debba essere un obiettivo condiviso da tutti.
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