[Questo articolo, a mia firma, è stato pubblicato sul Corriere della Sera del 3 luglio 2017].
Le scorse elezioni amministrative hanno visto l’affermazione decisa di quei partiti e movimenti che hanno saputo proporsi come forze di opposizione e antisistema e che sono stati capaci di intercettare il voto di protesta. Il centro destra, e soprattutto la Lega, che ha quasi raddoppiato i suoi voti, ha saputo interpretare, in questa occasione meglio del M5S, la rabbia e le paure dei tanti che subiscono direttamente sulla loro pelle gli effetti di otto anni di crisi economica e vivono una costante insicurezza (che sia reale o solo percepita, poco importa) non solo per quanto riguarda le loro condizioni economiche e lavorative, ma anche per quanto concerne il futuro dei loro figli, la possibilità di vivere al sicuro dalle minacce alla loro incolumità fisica, di poter contare su una solida rete di welfare in caso di malattia o peggioramento improvviso delle condizioni di vita.
Mi sembra che la paura e la reazione rabbiosa alla sensazione di insicurezza si confermino gli elementi principali alla luce dei quali interpretare i risultati di alcuni appuntamenti elettorali recenti, dall’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti all’esito del voto della Brexit.
I cittadini hanno quindi punito il Partito Democratico, percepito come forza “di governo” nell’accezione non positiva che questa espressione può assumere: logorato dalla scarsa rilevanza dei risultati della sua azione e impegnato più a gestire le proprie vicende interne che a tentare di amministrare la cosa pubblica e risolvere i problemi delle persone.
Quest’onda di protesta ai danni del PD ha toccato in maniera omogenea tutto il paese: Genova e L’Aquila sono forse casi emblematici di reazione all’azione amministrativa che lì è stata condotta.
Il Partito Democratico sembra pagare il fatto di aver perso quella spinta riformista e innovativa che ne ha caratterizzato la nascita e, soprattutto, il suo apparire ormai lontano dal suo popolo e dai loro problemi, distante dalle moltissime donne e dai moltissimi uomini che credevano in un progetto di cambiamento che hanno visto tradito, dal mondo dell’associazionismo civile, dalle nuove generazioni. Paga la sua incapacità di ascoltare, di condividere il disagio sociale, di affrontare le diseguaglianze, l’assenza di un progetto vero per il futuro del paese, l’incapacità di avere visione. Il linguaggio, le parole sono così lontane dai bisogni reali dei cittadini, dalle attese delle giovani donne e dei nostri figli, dal valore dei beni comuni. C’è tanta disillusione nel dato allarmante dell’astensione (40% al primo turno; 54% ai ballottaggi).
Quello di domenica è allora, ancora una volta, un voto contro le classi dirigenti, contro un modo personalistico di intendere la gestione del potere, contro l’incapacità di tornare a dialogare e costruire un rapporto di fiducia con i cittadini.
Non so se anche questa volta si invocherà lo spettro del populismo, ma se si leggesse in questo modo ciò che è accaduto, si perderebbe l’ennesima occasione per capire cosa stia accadendo nel nostro Paese.
Un’ultima annotazione: quando, dopo la cerimonia laica di addio a Stefano Rodotà, gli studenti e i cittadini presenti hanno salutato con un lungo e caloroso applauso il grande giurista, hanno testimoniato bene quanto siano importanti e apprezzate l’autorevolezza pacata e la vicinanza alle loro attese. Al contempo, forse, hanno sottolineato la lontananza e l’incapacità di ascolto di una parte della classe politica.
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