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Questa intervista con Marco Esposito è stata pubblicata per la prima volta sul Mattino di Napoli il 25 settembre 2016.
Massimo Bray, ex ministro della Cultura e direttore della Treccani, sta per diventare presidente della Fondazione del Salone del libro di Torino. La nomina cade nel trentesimo anno del Salone ma, anche, nel primo anno in cui il Salone del libro di Torino subirà la concorrenza del neonato Salone del libro di Milano. Milano dopo l’Expo sta diventando una città pigliatutto. Il Mattino ne ha discusso con l’ex sindaco di Torino Valentino Castellani, con il rettore della Federico II Gaetano Manfredi e con il finanziere e appassionato d’arte Francesco Micheli. Qual è il suo parere, visto il ruolo che andrà a coprire?
«Lunedì si riunirà la Fondazione per cambiare lo statuto. Spetta ai soci decidere sulla governance e fare le proprie scelte».
Capisco, ma la vicenda del Salone del libro l’avrà seguita…
«Certo. E mi ha colpito l’impossibilità di trovare un accordo tra Torino e Milano: è come se gli interessi particolari avessero impedito qualsiasi spirito costruttivo. Eppure si sono impegnati due ministri: Franceschini e Giannini».
L’accordo era possibile?
«Un accordo è sempre possibile se c’è spirito costruttivo. Facciamo una valutazione politica: abbiamo fatto grandi investimenti come sistema paese per collegare alcune grandi aree urbane con l’alta velocità. Oggi si va da Torino a Milano in 35 minuti. In 35 minuti si legge qualche capitolo di un libro. Si potevano organizzare eventi coordinati nelle due città e cominciare a utilizzare davvero questo collegamento».
Resta il fatto che i grandi editori sono a Milano.
«Appunto. I grandi. Ma l’editoria è cultura, non solo freddi numeri. Vedo l’incapacità di valorizzare i piccoli editori che pure hanno resistito alla crisi, hanno interpretato il cambiamento di internet e hanno promosso i talenti. Il nostro problema è la promozione della lettura, invece alcuni editori hanno fatto una scelta meramente economicista».
Il Salone di Milano si terrà dal 19 al 23 aprile 2017, quello di Torino è in calendario dal 18 al 22 maggio. Torino è destinata a spostare la data?
«La data la deciderà il Consiglio d’amministrazione. Ma chi ci guarderà da fuori non capirà due eventi così ravvicinati. Purtroppo viviamo in un’epoca che non riconosce il valore della cultura, di azioni solidali, della vita delle persone. Siamo ancora appesi al Pil».
Lei la data la sposterebbe o no?
«Io non ho perso la speranza che si rinsavisca tutti e si arrivi a un evento unico con una sola governance e il pieno rispetto della storia del Salone di Torino. Su questo ho visto assolutamente allineati sia il sindaco Appendino sia il presidente Chiamparino. In ogni caso, Torino dovrà caratterizzarsi come città del dialogo e il Salone dovrà essere corale, capace di attrarre competenze e di cogliere l’occasione dello scontro Torino-Milano per porre il tema di quale visione del paese abbiamo».
Tema che interessa tutti noi. Anzi forse soprattutto noi meridionali.
«Lo so bene. E lo dico da leccese. Il Mattino sta facendo un lavoro straordinario nel denunciare le azioni che desertificano il Sud. Mi riferisco in particolare a quelle che danneggiano il sistema universitario».
Denunciamo, ma non cambia una virgola.
«Dobbiamo insistere. Far conoscere i numeri è importante. La spesa pubblica per l’istruzione universitaria in Italia è già bassa in tutti i confronti internazionali, ma all’interno dell’Italia è nettamente più bassa al Sud: 332 euro in Germania; 305 euro in Francia; 157 euro in Spagna a fronte di 117 euro al Centro Nord e 99 euro nel Meridione. L’alta formazione deve diventare un servizio pubblico fondamentale».
Intanto l’Human Techopole si fa a Milano con 1,5 miliardi di soldi pubblici e con il sostegno degli atenei lombardi.
«È un problema di scelte della politica».
Il politico è lei.
«Eh no. Mi sono dimesso dal Parlamento e ho chiuso con la politica. Ora lavoro solo alla Treccani».
Ci sono tante forme per intervenire.
«Saranno decenni che non ci chiediamo cosa dobbiamo fare del Mezzogiorno. Eppure non è difficile. Il paesaggio, i beni culturali, l’agroindustria e il turismo consapevole sono i punti di forza della nostra terra. Dove si è andati in tale direzione, come in Puglia, si sono ottenuti risultati straordinari».
Briatore non la pensa così…
«Ha capito poco. Non ci serve il turismo dei grandi alberghi. Il modello sono azioni come quella che si è tenuta in questi giorni in una splendida città dell’Adriatico: durante i “Dialoghi di Trani” si alternano incontri, reading, spettacoli. Un festival apprezzato in Europa, dove c’è un’attenzione straordinaria per la nostra cultura. Insieme all’Unione europea dobbiamo valorizzare i nostri beni».
Come Carditello.
«Lì ho fatto un’esperienza, quando ero ministro, che mi ha insegnato tantissimo. Un venerdì mi arrivò l’appello di un’associazione territoriale e il sabato decisi di fare un sopralluogo. Lì incontrai Tommaso Cestrone, l’angelo di Carditello, che come prima cosa mi disse: “Se adesso arriva la televisione mi arrabbio”».
Le telecamere non c’erano.
«No, non c’erano. Tornato al ministero ho iniziato a studiare una soluzione. Siamo riusciti ad acquisire il bene ed è stato bello vedere come in una zona con tanti problemi si è riusciti, insieme alle associazioni del territorio, a dare un futuro a Carditello».
È già in contatto con il presidente della fondazione Nicolais?
«Non l’ho sentito ma sono convinto che lavorerà per dare alla reggia borbonica una destinazione all’altezza. L’Europa darà una mano: c’è un grande rispetto per il valore dei nostri beni storici. Anzi come meridionali dovremmo essere più presenti a Bruxelles: servono azioni che partano sia dall’alto sia dal basso».
Tornando al tema iniziale, quel che è accaduto tra Milano e Torino sembra confermare che non si può sperare in una visione generale e policentrica dell’Italia. Non crede?
«Il fallimento della trattativa sul Salone del libro è un brutto segnale non solo per Torino e Milano ma per tutta l’Italia. Anzi soprattutto per il Sud. Non si può continuare a investire risorse pubbliche soltanto in una parte del territorio. Servirebbe un grande piano per il Mezzogiorno».
Di piani forse ce ne sono fin troppi.
«Al di là delle definizioni, si dovrebbe far nascere in alcuni luoghi del Mezzogiorno dei centri d’eccellenza. Penso a una grandissima farm dell’innovazione in Campania. A filiere agroalimentari d’eccellenza. A centri di ricerca. Tornerei a pensare a una Banca del Sud che faciliti gli investimenti. E poi, anzi insieme a tutto ciò, una campagna culturale nelle scuole per formare i cittadini all’etica dell’interesse comune. Perché dello Stato ci si deve poter fidare».
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