Il testo di questo post raccoglie il mio intervento pronunciato il 13 luglio 2018 nella Sala Igea dell’Istituto della Enciclopedia Italiana in occasione dell’incontro dal titolo “Nelle grandi fratture. Un confronto tra generazioni”, organizzato dall’Associazione Sinistra Anno Zero.

La parola cambiamento è una delle parole più utilizzate nella nostra quotidianità. Siamo al centro di un cambiamento che ha pochi precedenti nella storia dell’umanità. Forse solo l’invenzione della scrittura e quella della stampa a caratteri mobili o dei telai meccanici possono essere paragonati per effetti alla profonda trasformazione che si sta diffondendo in seguito all’affermazione delle nuove tecnologie. Il bisogno di cambiamento è diffuso e intergenerazionale.

Cambia il modo di comunicare, di lavorare, di vivere. Tutto cambia, potremmo dire, mentre ci siamo risvegliati da quello che è stato definito «il sogno dogmatico della perfezione del mercato». La crisi del capitalismo globale finanziario che stiamo ancora vivendo è una crisi politica e culturale prima che economica da cui uscirà anche qui un mondo profondamente cambiato.

In questa situazione la prima domanda che credo occorra farsi è se riuscirà la politica ad interpretare questi cambiamenti e dare risposte alle molte attese che vengono dalla società.

Siamo di fronte ad un paradosso: da una parte c’è un bisogno forte di politica dopo anni di dominio dell’economia, dall’altra un atteggiamento di distacco, di crescente sfiducia nella politica, una crisi del concetto di rappresentanza.

Nel Discorso al XIX Congresso della Fgci del marzo del 1971 Berlinguer richiamava, con parole premonitrici, i giovani all’impegno di fronte alla “crisi che investe tutta la cultura contemporanea, frutto di una più generale crisi dei valori, che a sua volta è il prodotto della società capitalistica giunta alla sua fase più avanzata”. E continuava facendo presente che per vincere una simile battaglia non ci si poteva ridurre “agli slogans che dovrebbero produrre come dal nulla una cultura politica alternativa”; occorre, invece, diceva sottolineare “l’importanza della conoscenza indispensabile per pensare e progettare un mondo nuovo”. “Questo, continuava, è il solo modo rivoluzionario di intendere lo studio, sapendo bene la fatica che questo richiede”. “Solo così è possibile diventare uomini che sanno e che sanno fare”. Sembra di cogliere rileggendo quelle parole qualcosa di più di una semplice eco gramsciana, di quel Gramsci che scrive nel Q 12, a proposito della formazione politica: “… lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere disinteressato, non avere cioè scopi pratici immediati o troppo immediati, deve essere formativo, anche se istruttivo, cioè ricco di conoscenze concrete” (Q12, 2, 1546).

Perdonerete questa digressione, ma spero sia utile per leggere insieme una situazione storica complessa, e, allo stesso tempo, ricca di opportunità. Una situazione che pone il nostro Paese e l’Europa di fronte a grandi sfide.

Non ci si può, a mio avviso, rifugiare in interpretazioni riduttive e, parzialmente, tranquillizzanti, ascrivendo ciò che sta accadendo sotto l’etichetta di “populismo”. Siamo di fronte a forme di protesta generalizzate che investono una parte importante del mondo occidentale. E le risposte che la politica ha sinora saputo dare si sono dimostrate in tutti i casi insufficienti. L’impoverimento della classe media ormai ridotta a sopravvivere è un’emergenza che sta rischiando di diventare strutturale. Le persone hanno paura, reagiscono all’insicurezza che pervade la loro esistenza con forme di intolleranza perché non vogliono ma soprattutto non possono rinunciare a ciò che rimane delle conquiste sociali raggiunte nel Novecento. Non era mai accaduto che i cittadini del nostro paese perdessero così diffusamente la fiducia nelle istituzioni e nelle classi dirigenti, e che queste fossero addirittura viste come il nemico da sconfiggere. Il voto delle ultime elezioni in Italia, come ci hanno detto i ricercatori di Youtrend in questa sala, evidenzia che il governo è stato visto come il rappresentante dei poteri costituiti, incapace di ascoltare, interpretare e dare risposte alle richieste dei cittadini.

Serve a poco, credo, dire se questa reazione, così diffusa e dilagante, sia giusta o sbagliata. È il momento di chiedersi perché si sia giunti a questa situazione, e questa domanda devono porsela principalmente i responsabili della politica. A me, ma questo è davvero un pensiero molto personale, sembrano essere di grande attualità le riflessioni che contrappongono Pasolini a Calvino. Se è vero che non si potevano ignorare alcuni problemi congiunturali (penso al debito pubblico e ai parametri europei), è anche vero che non si poteva pensare di ricercare il consenso ignorando le forti richieste che venivano dai cittadini. Occorre definire una politica che rilanci lo Stato sociale, creda negli investimenti pubblici, aumenti il potere di acquisto dei cittadini, ridando in questo modo fiducia e speranza. Occorre proporre con coraggio un nuovo modello di Europa: quello che accade anche in questi giorni è il rifiuto di una globalizzazione che ha impoverito le tradizioni, le storie, le identità nazionali, creando una sovrastruttura burocratica e amministrativa.

Se si vuole creare un sentimento di appartenenza delle donne e degli uomini che vivono nei Paesi dell’Unione è necessario mettere in primo piano quell’insieme di valori culturali e politici che, per quanto diversi nelle singole tradizioni nazionali, hanno comunque elementi comuni e tali da rendere credibile un vero progetto di integrazione.

Con Alfredo Reichlin organizzammo una serie di seminari che sottolinearono la necessità di elaborare una cultura politica necessaria a leggere e dare risposte a questi problemi.

Evidenziammo come la cultura possa essere uno straordinario strumento per ricostruire i rapporti di fiducia all’interno di una comunità. La cultura può essere lo strumento giusto, perché è più rispettosa delle tradizioni, delle storie, delle identità, perché ha più immaginazione, più creatività. Perché le molte esperienze che si sono già affermate nel nostro Paese colgono il valore e la forza dei modelli partecipativi che partono dalla condivisione di un progetto (sociale e di impresa).

Siamo di fronte una grande sfida.

Quale progetto politico dobbiamo elaborare per il nostro Paese? La mia convinzione è che una grande prospettiva di cambiamento debba muovere dalla capacità di avere visione e dalla forza di alcune idee fondamentali: le forme della democrazia, il bisogno ineludibile di maggiore eguaglianza, un’etica per la politica.

Occorre, come scriveva Gramsci, una riforma intellettuale e morale, agire sulle coscienze, porre un problema di antropologia culturale: consapevoli di non aver capito le trasformazioni profonde avvenute nel mondo accidentale in questi decenni. Se non saremo in grado di dare al più presto risposte appropriate, credo che non sia difficile prevedere che la situazione che abbiamo di fronte possa durare a lungo. E non appartengo a quelli che ritengono tale risultato il castigo di Dio, ma il risultato della difficoltà di leggere ciò che nel Paese e nel mondo occidentale sta accadendo. Se non faremo presto, la protesta e la speranza continueranno a cercare altre vie democratiche, diverse da quelle a cui siamo soliti pensare.

Lo strumento, i segni da dare dovrebbero essere chiari: la cultura che sfida le istituzioni, la cultura che critica le scelte di superare il ruolo dello Stato, la cultura che difende i principi dello Stato sociale e usa quelli con propri e specifici rapporti di forza.

Dobbiamo quindi lavorare per tener viva la “sfera pubblica”, valorizzare tutte le forme di cittadinanza attiva, nella convinzione che sia l’unico modo per dare linfa alla democrazia, per ricostituire quel legame di fiducia che sembra essersi spezzato, partecipando a discussioni sul merito dei problemi, attraverso un dialogo continuo con chi opera nei territori nella difesa dei beni comuni.

Sono convinto che discussioni come questa che oggi avete promossa saranno di stimolo a chi dovrà pensare il futuro del nostro Paese.


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