Taranto,_castello_aragonese_visto_dal_lungomare_01

Foto di Saiko (https://commons.wikimedia.org/wiki/User:Sailko) sotto Licenza CC BY 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/3.0/deed.en)

Questo post anticipa l’undicesimo capitolo di “Alla voce cultura”, volumetto che raccoglie, in forma di “Diario sospeso”, la mia esperienza di Ministro. “Alla voce cultura” sarà pubblicato da Manni Editore il 28 novembre 2019 e sarà presentato il 7 dicembre 2019 in occasione di Più libri più liberi: Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria, al Roma Convention Center – La Nuvola. 

Dopo molti giorni di pioggia, il cielo era finalmente privo di nuvole e io andavo a Taranto per parlare di un progetto che sognavo fin da poco dopo la mia nomina: ripensare quella città, indicare una nuova via di uscita dalla situazione di un territorio che, per scelte sbagliate, aveva visto cancellata la sua storia e quella dei suoi cittadini, e che rappresentava uno dei ritardi più evidenti nella lettura della contemporaneità. Pensavo, nello stesso tempo, che se si fosse elaborato un progetto condiviso e partecipato, un progetto che non dovesse gestire le emergenze, ma definire un’idea di città differente, si sarebbe potuta mostrare la capacità di concepire in modo diverso il futuro del nostro Paese, recuperare il tempo perduto, vincere una sfida, pensare e realizzare i cambiamenti nella e della politica.

La presenza dello Stato per raggiungere questi obiettivi sarebbe stata fondamentale, avrebbe consentito di superare il senso di sfiducia dei cittadini che vivono con sofferenza il rapporto con il loro territorio.

La Puglia si era affermata, in quegli anni, come un modello virtuoso, un esempio di come si potesse ripartire dal- la cultura e dal turismo per una rinascita economica, sociale e civile. Speravo che un giorno si potesse dire lo stesso per Taranto.

Quella Taranto che Pasolini, quando nell’estate del 1959 percorse la costa italiana al volante di una Fiat Millecento per realizzare il reportage per la rivista «Successo» – poi pubblicato postumo con il titolo La lunga strada di sabbia –, definì la città che «brilla sui due mari come un gigantesco diamante in frantumi. [...] Taranto, città perfetta. Viverci è come vivere all’interno di una conchiglia, di un’ostrica aperta. Qui Taranto nuova, là, gremita, Taranto vecchia, intorno i due mari, e i lungomari». Il recupero di Taranto sarebbe stato un passo importante e strategico per tutto il Paese, un modo per dare una risposta a chi, utilizzando la giusta attenzione che occorre avere per il problema dell’occupazione, difendeva la situazione esistente. E mi faceva star male che questo punto di vista non fosse rappresentato dalla parte politica in cui mi sarei dovuto riconoscere.

Per fortuna, anche a Taranto ero entrato in contatto con molte associazioni e insieme avevamo a lungo discusso di ciò che si sarebbe dovuto fare per disegnare un futuro diverso.

Renzo Piano si è impegnato in un ampio progetto di valorizzazione delle periferie urbane, basato sul presupposto di una loro centralità per il futuro della città. È un progetto di valore, da condividere, e che andrebbe integra- to con i molti progetti di restauro e valorizzazione dei centri storici, in particolare in quei luoghi in cui le condizioni del patrimonio richiedono interventi di maggiore urgenza. Questo perché i centri storici sono i luoghi che custodiscono il ricco e multiforme passato di ogni città italiana, la memoria storica delle comunità locali, le sensibilità verso l’arte e la bellezza, elementi di miglioramento della qualità della vita di tutti i cittadini. È una specificità italiana alla quale sarebbe irragionevole rinunciare arrendendosi di fronte alle difficoltà che si incontrano nelle va- rie situazioni locali, e sulla quale è essenziale puntare proprio come occasione di rilancio del territorio. Ma per far questo dovremmo davvero imparare a fare sistema: tra Stato ed enti locali; tra i diversi attori del mondo culturale; tra istituzioni e associazioni; tra centro e periferia.

In quei dieci mesi da ministro mi sono chiesto tante volte come fosse stato possibile far calare il silenzio su situazioni così compromesse come quella di Taranto. Eppure nella nostra storia non era stato sempre così e sapevo di avere di fronte molti esempi virtuosi: conoscevo l’impegno di donne e uomini che ogni giorno, nelle differenti strutture del Ministero, difendevano con coraggio, professionalità e passione il valore artistico e sociale del patrimonio, garantendo a tutti i cittadini l’accesso alla cultura come bene comune. Ma avvertivo la necessità di uscire dalla logica delle emergenze, di offrire risposte concrete alla popolazione. Occorrevano interventi urbanistici e un sistema di presidio sociale del territorio, ingenti investimenti nella tu- tela e nella riqualificazione del paesaggio, nell’istruzione e nella creazione di posti di lavoro.

In una delle e-mail ricevute, una giovane ragazza, scrivendomi dopo la visita a Taranto, mi riportava questo passo di Aristotele: «L’uomo realizza la sua umanità e felicità nella polis, tempio dell’architettura civile e del senso più intimo dell’essere uomini politikoi, diceva il grande filosofo. Ma oggi quel mondo e quel modo di pensare sembrano così lontani. Oggi qui, a Taranto, non possiamo sperare in buone politiche, perché in carica ci sono i responsabili di una politica lontana dalla difesa dei beni pubblici».

Come avrei potuto risponderle? Come ridarle speranza? Le raccontai del mio viaggio, le raccontai della fortuna che avevo avuto ad incontrare A., un ragazzo impegnato in una delle associazioni. Le scrissi che condividevo le parole della sua citazione: per gli antichi la felicità era lo scopo ultimo della vita, il principale obiettivo della buona politica, un’attività da attuare conformemente alla virtù più alta dell’essere umano, la capacità di conoscere e saper coniugare la nozione delle cose belle e divine, un’azione che muove dall’attività contemplativa, l’energheia theoretike, da un’energia vitale e valoriale per giungere all’attuazione delle scelte di governo «pratiche». Proprio per questi concetti, scrive Momigliano, la politica svolge una funzione fondamentale, e i pensatori greci erano consapevoli che una comunità che si fosse trovata a vivere con una cattiva forma di governo si sarebbe impoverita e sfiduciata, impedendo ai cittadini di realizzare quella potenzialità unica e tipica dell’essere umano che consiste nel tendere alla felicità.

Anche qui la nostra Costituzione mi veniva incontro – ho sempre avuto nel mio zaino una copia della Costituzione e quasi sempre, in aereo o in treno, l’ho riletta scoprendone continuamente l’attualità – ricordandomi quale avrebbe dovuto essere il mio modo di agire. E così, per risponderle, citai proprio la Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli [...] che [...] impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Anche a Taranto avevo ascoltato la richiesta di molte donne e uomini di dare un segno di discontinuità in quella che era stata per anni la gestione dei beni culturali: A. si faceva interprete di queste istanze, cercando di tenere insieme le molte esperienze di cittadinanza attiva presenti in città, convinto che un’opera di coinvolgimento sarebbe stato il modo migliore per dare fiducia e creare le basi solide per avviare il cambiamento.

Quel giorno, dopo la visita al centro storico, andai al MARTA, il museo archeologico. Era stato recuperato in maniera straordinaria, visitavo le sue sale e rimanevo stupito della sua magnificenza, coglievo tutto il valore della sto- ria della Magna Grecia. Il Museo, restituito alla città, tornava ad essere un presidio di cultura e di civiltà. «Ma ora abbiamo moltissime cose da fare e lei non ci deve abbandonare. Torni presto, ci aiuti a trovare il modo per uscire da questa situazione di malessere che vivono i tarantini, continui a tener vivo il dialogo con le persone che vivono una città che sentono estranea, a volte nemica».

L’associazione di A. organizzava mostre e visite guidate ai monumenti, nella prospettiva di un rilancio della città in chiave culturale. In tutti i luoghi che ho avuto la fortuna di visitare il ruolo delle associazioni di volontariato è centrale: esse tentano di coinvolgere le comunità all’interno di spazi che possono così tornare ad essere luoghi condivisi, di incontro, nei quali partecipare a esperienze artistiche e culturali che gettino idealmente le basi per una sensibilità comune, contribuendo alla costruzione del senso civico, alla coesione sociale, al sentimento di appartenenza a una comunità solidale.

Vorrei ricordarle tutte, le associazioni di Taranto e quelle incontrate in quei dieci mesi, e ricordare i volti sorridenti, amichevoli, fiduciosi di donne e uomini in cui mi sono imbattuto e con cui si è stretta una forte amicizia, dettata dalla solidarietà di intenti e dalle passioni condivise. Anche di fronte a situazioni di esistenza drammatiche, la cultura mi mostrava la sua forza, segno di un percorso di civiltà che deve appartenere, con piena coscienza, alla comunità in cui essa, nelle sue manifestazioni, si colloca, contribuendo a definire e a formare il vero tessuto sociale, divenendo l’indispensabile presupposto dell’appartenenza e della solidarietà.

In quei dieci mesi mi sono state sempre presenti le parole di Salvatore Settis: «Le urgenze del presente ci spingono a rileggere le vicende del passato non come mero accumulo di dati eruditi ma come memoria vivente delle comunità umane. Solo questa concezione degli studi storici può trasformare la consapevolezza del passato in lievito per il presente, in serbatoio di energie e di idee per costruire il futuro».

Visitando con A. la città vecchia di Taranto mi piaceva leggere il presente e il futuro non separandoli mai dalla «memoria», in relazione all’importanza della cultura per la nostra identità nazionale, il nostro essere cittadini responsabili, il nostro sentirci comunità. «Chi non ricorda, non vive», scriveva Giorgio Pasquali; ed è fondamentale, per qualsiasi società, saper conservare, sapersi prendere cura del proprio passato, quel passato la cui conservazione è imprescindibile requisito per la conoscenza di sé e degli altri, per la consapevolezza della propria individualità e delle proprie caratteristiche, per la capacità di pensare e di pro- gettare il proprio futuro: è la memoria del passato che ci consente di definire la nostra identità di persone e di comunità; che ci permette di entrare in dialogo con le comunità diverse dalla nostra; che deve guidarci nelle scelte e ispira- re il nostro agire.

Questo è ancor più vero in riferimento al Mezzogiorno, dove credo sia fondamentale una riflessione tra passato e presente, tra presente e futuro, anche e soprattutto come risposta alla crisi dei modelli di sviluppo di questi ultimi decenni e in considerazione del fatto che non possiamo più tardare a dare una risposta chiara, forte e coraggiosa sul modello di «benessere», di pari opportunità, di qualità del- la vita, a quella parte del nostro Paese che ha bisogno di credere nel suo futuro. Ne parlai con Enrico Letta chiedendogli la possibilità di impegnare il Governo per un progetto su Taranto. Il presidente del Consiglio si dimostrò sensibile e si impegnò a creare un tavolo di discussione.

Dopo l’incontro, annotai nel Diario: “Occorre una nuova strategia per il Mezzogiorno che ponga al centro la cultura e che contempli, accanto a una gestione più efficace dell’immensa ricchezza culturale del territorio, anche l’attivazione di politiche in favore dell’industria culturale e creativa, che può aprire importanti prospettive di occupazione qualificata e di sviluppo sostenibile del territorio. Un piano teso a incentivare la nascita di reti e incubatori di imprese innovative potrebbe rappresentare l’occasione per un rilancio dell’economia e insieme una spinta per il cambiamento politico, sociale, culturale e civile. Dobbiamo guardare a Taranto attraverso la lente della centralità del «capitale umano», l’importanza di politiche di valorizzazione delle risorse culturali e paesaggistiche deve essere un principio acquisito e ampiamente condiviso, come la scelta secondo la quale, per il Mezzogiorno, modelli di sviluppo basati sulla capacità attrattiva di queste risorse non solo siano potenzialmente vincenti sul mercato globale, ma risultino anche decisamente coerenti con le vocazioni territoriali.

Un modello di sviluppo che non può far leva solo sul settore dei beni culturali, ma deve essere imperniato attorno ad un processo produttivo che integri l’attività di valorizzazione turistica con gli altri settori produttivi che a quel processo sono connessi (artigianato, enogastronomia, trasporti e così via) e attuare, nello stesso tempo, un piano di investimenti nei settori ad alta tecnologia.

Taranto deve essere in grado di rinascere, di risollevarsi, di sanare le ferite della città raccontate da Giancarlo De Cataldo nel suo reportage del 1996 e ancora presenti, aggravate da una frantumazione del tessuto sociale, aggredito dagli effetti di una crisi economica che ha acuito le diseguaglianze, ignorato il valore dei beni comuni in favore di forme di sviluppo di veduta corta.

Non mancano esempi di una «rinascita culturale» che in questi mesi e in questi anni ha visto Taranto sapersi proporre anche come luogo capace di valorizzare la propria storia, la propria cultura e il proprio patrimonio archeologico e museale”.

La Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le province di Lecce, Brindisi e Taranto aveva effettuato con propri fondi una serie di interventi nella città vecchia: il restauro della cattedrale e del Cappellone settecentesco di San Cataldo, della chiesa di Monte Oliveto e del Castello Aragonese.

Ma molte altre manifestazioni erano il segno di una comunità che si mobilitava, all’interno di spazi partecipati, restituendo in tal modo ai cittadini dei luoghi di incontro, nei quali condividere esperienze artistiche e culturali che evidenziavano l’energia di una sensibilità comune, contribuendo al senso civico, alla coesione sociale, al sentimento di appartenenza a una comunità solidale. Straordinaria mi era sembrata l’esperienza del Teatro TaTÀ, nato in una delle realtà più difficili della città, per realizzare, oltre a spettacoli teatrali, incontri e laboratori per le scuole, percorsi di ricerca e altre attività formative.

Restava ancora moltissimo da fare: per Taranto occorre- va pensare ad un progetto coerente, ad un’idea di città dove la cultura divenisse impegno reale per il miglioramento della qualità della vita dei suoi cittadini. Ma, per far questo, occorreva ancora una volta avere visione.

Una visione come quella che aveva Alessandro Leogrande: tarantino, classe 1977, come tanti suoi coetanei era andato via da quella città ai tempi dell’università, ma sempre ci tornava, la analizzava e ne scriveva, riuscendo a tracciare un filo che partiva da lontano e che teneva insieme l’ambiente e la cultura, la politica e il lavoro.

Alessandro aveva una visione del Mezzogiorno, del Mediterraneo, studiava la questione meridionale e quella dei migranti, si impegnava concretamente per le politiche culturali della Regione Puglia. Il suo orizzonte era il mondo, quello dei più deboli soprattutto, ma le sue radici erano co- sì radicate a Taranto che, ad esempio, lì continuava a vota- re anche dopo vent’anni di vita a Roma, raccontava divertito e orgoglioso.

Con la sua scomparsa, si è perso un intellettuale prezioso, un osservatore profondo, un militante della cultura.

Mi sono soffermato a lungo su Taranto e questo dimostra quanto sofferta sia stata l’impossibilità di definire un progetto e una norma di legge per la città, così come eravamo riusciti a fare per Pompei. Ero consapevole di quante città europee «in crisi» potevo prendere ad esempio per la rinascita, città che nel passaggio traumatico da un’economia industriale ad un’economia della conoscenza avevano puntato sulla cultura come modalità per un processo più ampio di rigenerazione urbana, economica e sociale: Bilbao, Glasgow, Barcellona erano solo i casi più noti di scelte di buona politica.

In tutte quelle esperienze la definizione tradizionale di «bene comune» riferito alla città si era arricchita del valore storico, concreto, fattuale della cultura; alla dimensione materiale – spazi o edifici pubblici, opere di architettura che diventano i nuovi simboli dell’identità locale, come il Guggenheim di Bilbao –, si era sommata quella immateriale – idee, innovazione, creatività, stili di vita, tradizioni, simboli.

Nel viaggio di ritorno da Taranto, come al solito, prendevo appunti e scrivevo le mie riflessioni. La possibilità che avevo avuto di entrare nelle case della città vecchia, gli sguardi all’inizio di diffidenza e poi di fiducia mi avevano fatto capire quanto fosse importante per il nostro Paese, ma in particolare per il Mezzogiorno, difendere il proprio patrimonio, le proprie tradizioni e proiettarle in una sfida verso il futuro. E avevo capito ancora una volta l’importanza dell’idea di comunità. “L’obiettivo al quale sono chiamati tutti coloro che si occupano di cultura, a vari livelli, in ambiti differenti e nei diversi ruoli, deve essere quello di dare un contributo all’edificazione di una società in cui le infinite manifestazioni nelle quali si realizzano le differenti espressioni artistiche possano svolgere un ruolo fondamentale nella formazione dei cittadini, dei loro valori, della loro responsabilità, del loro impegno civico, che è alla base del sentimento di appartenenza di una comunità solidale”. Ed è un compito che sentivo allora, e sento ancora, particolarmente urgente, perché soltanto a partire da un rinnovato senso della collettività e del bene comune sarà possibile affrontare le grandi e in gran parte inedite sfide che attendono nei prossimi anni il nostro Paese.

 


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