Questo post riprende l’intervento che ho pronunciato il 7 giugno 2017 all’Istituto della Enciclopedia Italiana, in occasione della presentazione del n° 4 di “Pandora, rivista di teoria e politica”, intitolato “Élite”.
Numerosi sono gli spunti di riflessione che emergono dalla lettura dei contributi contenuti nel numero 4 di Pandora, dedicato alle élite; diversi corollari di una riflessione puntuale e dettagliata su cosa sono le élite oggi, sul modo in cui si formano e operano, sulle questioni principali legate al loro processo di affermazione e alle modalità di interazione con il contesto politico-sociale odierno. Pressoché tutti i contributi inclusi nel fascicolo sottolineano come, nel quadro dei sistemi politici occidentali, che sono centrali nella nostra analisi, emergano alcune tendenze comuni.
In primo luogo, come discusso nell’intervista con Colin Crouch, il passaggio dalle élite nazionali tipiche dell’epoca del compromesso keynesiano a quelle, prettamente transnazionali che si sono affermate nell’epoca del predominio dell’ideologia neoliberista. Élite che per affermarsi e consolidarsi hanno profittato dello sganciamento delle dinamiche del capitalismo dal lavoro e dell’indebolimento, legato alla perdita della capacità di controllo dei processi economici, tanto dei governi nazionali quanto dei corpi intermedi e di rappresentanza delle istanze collettive: tutela del lavoro in primis.
La rivolta contro queste élite economiche transnazionali, nel contesto post-crisi economica globale, ha portato all’affermazione di forze nazionaliste e populiste, le uniche, a quanto pare, in grado di dare una risposta alla domanda che il cittadino di oggi, nell’epoca post-ideologica dove anche l’ideologia neoliberista pare incrinarsi, si pone. Come ricorda il Crouch, questa domanda è: chi sono io politicamente, a quale comunità sento di appartenere? A questa domanda, le forze nazionaliste offrono una risposta facile e di immediata comprensione: sono un membro di questa nazione.
Al discorso anti-immigrati e di rifiuto di ideali positivi di multiculturalismo e solidarietà umana, le forze nazionaliste affiancano, in molti casi, anche una radicale retorica anti-establishment. Ciò ci conduce a parlare del secondo elemento importante tra quelli che emergono negli articoli contenuti nel fascicolo e che più mi hanno colpito.
In numerose democrazie occidentali abbiamo assistito all’affermazione di una retorica pubblica, di soggetti singoli e forze politiche (da Trump al Movimento 5 stelle) che conquistano consenso facendosi portatori di una visione anti-establishment. Sono forze che utilizzano a loro vantaggio la percezione diffusa tra i cittadini che le classi dirigenti siano lontane dai problemi quotidiani della gente comune, che godano di privilegi non giustificati da alcun criterio di merito e che, nel loro agire quotidiano, siano guidati dal desiderio di preservare e perpetuare il loro status di privilegiati e non dalla ricerca del bene comune.
L’ormai decennale retorica della “casta”, del resto, ha indebolito fortemente il rapporto di fiducia che naturalmente dovrebbe legare tra loro rappresentante e rappresentato, governante e governato. È una retorica che ha profondamente delegittimato le classi dirigenti e che ha ribaltato, nel giudizio, l’onere della prova: tutti colpevoli (incapaci, ladri, profittatori) fino a prova contraria. È una retorica che, come sottolinea Ilvo Diamanti nella sua intervista, fa leva su quello spostamento del baricentro del consenso dalla fiducia alla sfiducia che gli “imprenditori politici della sfiducia e della paura stanno cavalcando per conquistare spazio e consensi”.
E però, mi chiedo, avrebbe potuto radicarsi così profondamente questo senso di frustrazione e abbandono se le classi dirigenti (politiche, economiche, sociali) non si fossero dimostrate così impotenti di fronte al manifestarsi degli effetti drammatici di una crisi ormai quasi decennale? Del resto, come è noto, la critica alle élite, politiche o economiche che siano, si accentua dopo lo scoppio della crisi e diventa, grazie a un linguaggio molto semplificato e all’utilizzo di nuovi canali di diffusione (web e social media soprattutto), sentire comune di gran parte del “popolo”. Possiamo davvero stupirci della presa che hanno notizie come quella secondo cui, a livello globale, 8 super ricchi possiedono beni quanto 3,6 miliardi di persone? O anche, guardando all’Italia, che l’1% più facoltoso della popolazione ha nelle sue mani il 25% della ricchezza nazionale netta?
Oltre tutto, come Maurizio Franzini sottolineava in un seminario svoltosi proprio in questo istituto alcune settimane fa, tra questo limitatissimo numero di superricchi si sta affermando una nuova categoria che non deve il suo successo a meriti particolari, ma a una nuova forma di rendita che non si basa più sulla proprietà, magari ottenuta per via ereditaria, degli strumenti di produzione, quanto per il possesso di talenti per i quali non hanno alcun merito.
L’intreccio delle conseguenze nefaste della crisi economica, di cui la crescita del numero dei poveri nel nostro paese (singoli e famiglie) è la manifestazione più drammatica ed eclatante, unito all’aumento delle diseguaglianze dà fondamento reale a una percezione di lontananza dalle classi dirigenti che mina alla base, mi sembra, il processo democratico e le dinamiche della rappresentanza.
Si passa così, come sottolinea Bottos nel suo testo, dalla critica di un certo tipo di élite alla critica delle élite in quanto tali, finendo, in nome di una concezione radicale e diretta della democrazia, per contestare l’esistenza stessa delle classi dirigenti e delegittimarle negandone l’autorevolezza, la competenza e la moralità. Prefigurando così una società che possa fare a meno delle élite; una democrazia che possa fare a meno di classi dirigenti. Mi sento invece di dire che tutti, qui, partiamo dal presupposto che le élite sono necessarie e che il problema vero sta nella frattura che si è generata tra popolo ed élite, tra governati e governati.
E certamente, in questo processo, è importante operare, come sottolineato in alcuni articoli, una ricucitura che sia reale prima ancora che ideale, incidendo sui fattori strutturali che stanno alla base della situazione attuale: disuguaglianze, disoccupazione, crisi delle classi medie. Questo però non basta a risolvere quello che mi sembra un problema cruciale della questione: quello della formazione di una classe dirigente competente, autorevole e non più riluttante.
È una questione che mi sta molto a cuore e che ho visto solo accennata negli interessanti articoli di Emanuele Felice e di Pasquale Terracciano, mentre forse avrebbe meritato un supplemento di riflessione.
Credo infatti che molto abbiano inciso, nella perdita di competenze e di visione delle classi dirigenti, da un lato l’indebolimento dell’infrastruttura formativa nazionale (scuola e università in primis), dall’altro l’eccessiva specializzazione verso cui questo sistema si è progressivamente avviato, producendo con il tempo una classe di “tecnici” e/o “esperti” privi della capacità di leggere la complessità dei processi nel suo insieme. Dall’altro il processo di disintermediazione nella comunicazione e l’indebolimento delle grandi organizzazioni di massa hanno fatto sì che questa separazione tra élite e popolo diventasse fisica oltre che ideale: i momenti di incontro vero tra le persone (nelle sezioni, nei luoghi di lavoro, nelle associazioni attive sul territorio), pur con qualche eccezione, sono nel complesso sempre meno numerose. Si finisce così per perdere il polso dei problemi del paese, della realtà vera, delle sue storie. Per trasformare i lavoratori, che sono prima tutto persone e capifamiglia, in esuberi; i cittadini, che sono l’ossatura della vita civile e democratica, in percentuali elettorali da conquistare.
Commenti
Posta un commento