
Allegoria delle virtù di Raffaello Sanzio (1511); Stanza della Segnatura, Città del Vaticano (Wikimedia Commons)
Questo post raccoglie il mio intervento pronunciato a Cagliari il 5 giugno 2016, nell’ambito dell’ottava edizione del Festival Leggendo Metropolitano.
Il tema scelto per quest’anno dagli organizzatori di Leggendo Metropolitano – festival giunto alla sua ottava edizione – Virtù e Fortuna, la felicità a portata di mano, fornisce lo spunto per una riflessione di ampio respiro su cosa significhi, oggi, il concetto di felicità. Un tema di cui si è molto discusso negli ultimi tempi, soprattutto a partire dalle posizioni espresse da alcuni tra i maggiori economi, filosofi e sociologi del panorama internazionale; il primo nome che viene in mente è naturalmente quello di Serge Latouche, professore emerito di Scienze economiche all’Università di Parigi XI, che sul concetto di «decrescita felice» ha impostato un profondo ripensamento delle priorità della società occidentale così come la conosciamo, criticando il modello economico della crescita infinita e promuovendo, in sua sostituzione, quello di “economia sostanziale”, intesa – come si legge nel suo libro del 2011 Come si esce dalla Società dei Consumi – «come attività in grado di fornire i mezzi materiali per il soddisfacimento dei bisogni delle persone non riconducibili esclusivamente alla sfera economica». Lo stesso concetto di FIL, Felicità interna lorda, introdotto nel 1972 dal Buthan in contrapposizione a quello di PIL, ha riscosso un crescente successo a livello mondiale, tanto che l’obiettivo di misurare il livello di felicità individuale raggiunto dalle popolazioni è stato accolto anche dalle Nazioni Unite con il loro Indice di Sviluppo Umano (HDI Human Development Index), non più riferito esclusivamente al PIL ma anche agli indicatori relativi alla qualità della vita.
A partire dalle Nazioni Unite fino all’Unione Europea, diversi gruppi di ricerca hanno lavorato per definire e perfezionare degli indicatori di felicità da utilizzare nelle analisi delle condizioni di diversi Paesi del mondo: dal Canadian Index of Well Being definito dall’Università di Waterloo, all’Happy Planet Index elaborato dalla New Economics Foundation; dal Better Life Index promosso dall’OCSE, fino al progetto italiano BES (Benessere Equo e Sostenibile), nato da un’iniziativa congiunta del CNEL e dell’ISTAT per la misurazione del benessere collettivo della nazione.
L’economista Stefano Bartolini, autore del Manifesto per la felicità, ha riconosciuto la causa dell’attuale e diffuso senso di sfiducia nella carenza di relazioni umane: se siamo infelici, pur vivendo in Paesi sostanzialmente ricchi, è perché abbiamo sacrificato al benessere materiale il tempo da dedicare agli altri. «Questo tipo di sviluppo non solo non produce benessere – ha scritto Bartolini –, ma crea anche enormi rischi per la stabilità economica, come la crisi attuale dimostra. Essa infatti è il prodotto di un’organizzazione sociale che genera la desertificazione delle relazioni umane».
Non è questa la sede per addentrarsi nelle complesse analisi socioeconomiche sviluppatesi intorno a questo tema, in particolare grazie alle ricerche dell’economista Richard Easterlin, che con il suo fortunato paradosso ha aperto la strada alla valutazione della felicità come fondamentale parametro di analisi dello sviluppo economico; è invece più interessante soffermarsi sul fatto che ogni studioso che abbia affrontato la questione ha posto come elemento cruciale di questo mutamento di paradigma la cultura.
In un bel saggio apparso nel 2009 sull’opera Treccani XXI Secolo, dal titolo Economia e felicità, Luigino Bruni, ordinario di Scienze economiche alla Lumsa, ha indagato a fondo la questione, basandosi sulle teorie espresse dal grande economista ungherese Tibor Scitovsky già nel 1976 nel suo The joyless economy. An inquiry into human satisfaction and consumer dissatisfaction. Distinguendo tra beni di comfort (gli oggetti) e beni di creatività (i prodotti artistici e culturali, la musica, la letteratura ecc.), Bruni ha dimostrato come solo i secondi forniscano un soddisfacimento prolungato al consumatore: «più sono consumati più arrecano benessere», scrive l’economista. Le moderne economie, basate sulla spinta al consumo sostenuta dalla pubblicità (come rileva anche il bel manifesto di Leggendo metropolitano, quando parla di «dinamiche di persuasione»), non possono permettere che il consumatore sia appagato senza spendere in modo crescente in beni materiali, il cui consumo dà una soddisfazione di breve durata e induce al desiderio di sostituirli rapidamente.
Questo circolo vizioso risucchia le energie che potrebbero essere altrimenti spese per generare socializzazione e migliorare la qualità della vita, producendo anche un reddito diffuso e più legato alle economie locali (pensiamo all’artigianato e all’enogastronomia, oltre che alle innumerevoli espressioni locali del patrimonio culturale, che possono attirare un turismo di qualità attraverso la promozione di festival, monumenti, siti archeologici, paesaggi, produzioni artistiche e folkloriche e così via).
Una società che come unico idolo ha l’accumulo di beni materiali, che sacrifica le sue coordinate storiche, la sua memoria collettiva, la sua identità, le sue tradizioni e i suoi paesaggi sull’altare di una crescita economica a tutti i costi, è destinata non solo a essere sempre meno felice, ma anche a veder progressivamente ridotta quella crescita economica a cui tanto ha aspirato. Questo perché è evidente che nei gruppi sociali dove si avvertono sfiducia, diffidenza verso il prossimo, paura verso l’esterno, indifferenza verso il bene comune e culto della proprietà privata si tende ad arroccarsi nelle proprie stanze dorate limitando gli scambi e i rapporti sociali; e per questa china si arriva a una vera e propria paralisi della vita civile.
Uno splendido film del 2007, che ha riscosso purtroppo poco successo in Italia, La zona, del regista uruguaiano Rodrigo Plà, rappresenta chiaramente questo scenario distopico nel quale ci stiamo immergendo senza rendercene conto: una roccaforte del benessere circondata da altissime muraglie, reticolati, telecamere, squadre di poliziotti privati, all’interno della quale pochi individui che vivono incollati a televisori e apparecchiature digitali, circondati dal lusso ma incapaci persino di parlarsi tra loro, fanno da contraltare alla massa dei diseredati che preme dall’esterno, avida di vendetta.
Una società che non sa essere solidale, che non sa confrontarsi con l’altro e neppure con sé stessa, è una società che ha fallito il suo percorso. L’alternativa a tutto questo è, appunto, la cultura.
Come ha scritto Averil Cameron, illustre studiosa di storia romana dell’università di Oxford, «Con il termine “cultura” intendiamo quel nesso di idee e conoscenze da cui ogni società dipende per conseguire la propria identità di comunità».
Comunità, dunque, intesa come un gruppo sociale coeso, attivo e partecipe alla vita pubblica; un gruppo sociale nuovamente consapevole dei legami che lo uniscono, e del retaggio di tradizioni e conoscenze che hanno contribuito a definirlo e che avrà a sua volta il compito di trasmettere alle generazioni future; consapevole della sua storia, del suo patrimonio culturale materiale e immateriale e dell’ambiente in cui vive, e deciso a preservarli dall’incuria, dalla speculazione e dall’abbandono che ogni giorno minacciano la bellezza del nostro Paese.
Per raggiungere un obiettivo del genere occorre davvero intraprendere un percorso che ci porti, prima di tutto attraverso l’istruzione, a costruire una società della conoscenza e dell’inclusione, una società in cui nessuno resti indietro.
Sono sempre più convinto, infatti, che questi due aspetti, cultura e integrazione, siano fortemente interdipendenti: non si può parlare di ricostruzione del senso civico, di comunità, di legalità, di conoscenza, se non ci si sofferma sui temi del dialogo tra popoli, dell’accoglienza e della solidarietà – del «costruire la pace nelle menti degli uomini», come recita il bel motto dell’UNESCO.
Questa è una lezione che gli operatori no profit e il mondo del volontariato conoscono bene, a volte addirittura meglio di chi lavora dall’interno delle istituzioni e spesso non ha la possibilità di impegnarsi ‘in prima linea’. E invece è proprio questo che fanno le migliaia di volontari, a volte giovani e giovanissimi, e sempre molto competenti, che quotidianamente si occupano di tutela del patrimonio culturale e dell’ambiente, di promozione sociale, di lotta contro le mafie.
Purtroppo, spesso, a questo entusiasmo non corrisponde un reale riscontro da parte delle istituzioni, che mostrano invece, ancora, troppa poca fiducia nella capacità del nostro patrimonio culturale di generare un valore stabile. Esso viene ancora avvertito, soprattutto dal punto di vista di una classe politica a volte poco preparata e poco lungimirante sull’argomento, come un peso che lo Stato è tenuto ad accollarsi per obbligo costituzionale, obbligo dal quale si ritiene necessario tentare di svincolarsi affidandosi a sempre più articolate forme di partenariato pubblico/privato.
Un atteggiamento simile, sommato ad uno scarso investimento sulla formazione culturale e artistica degli studenti e sull’inquadramento lavorativo dei laureati nel settore, non può che far perdere altro terreno alla percezione collettiva della cultura come possibile fonte di reddito reale, oltre che come fondamento e volano di rilancio civile e sociale della nazione.
Com’è possibile che proprio l’Italia, Paese che ha inventato la gestione pubblica dei beni culturali, abbia progressivamente perso di vista questa missione collettiva?
Il risultato è naturalmente una grave crisi nel consenso dell’opinione pubblica verso gli investimenti statali in questo settore, crisi che si manifesta con la diffusione di stereotipi quali, da un lato, quello, completamente svincolato dalla realtà, secondo cui «la cultura non deve aver niente a che vedere con l’economia e lo sviluppo», e dall’altro l’ormai trito slogan «con la cultura non si mangia».
Tutto ciò nonostante si sia reso evidente negli ultimi anni quanto la cultura, e la cultura umanistica nella fattispecie, possa generare occupazione e quanto, a scapito della vulgata che la vede immobile e, per così dire, ‘polverosa’, essa possa essere innovativa.
Tuttavia, tra i due poli della discussione – sinceramente asfittica – tra chi vede il patrimonio culturale solo come un giacimento di petrolio da sfruttare, e la difficoltà di valorizzare i beni culturali, c’è forse una soluzione intermedia, quella che da più parti si definisce ormai ‘terza via’, e che consiste nello stabilire parternariati con soggetti provenienti dal mondo del no profit, delle associazioni, dei comitati, delle fondazioni: soggetti che nascono già consapevoli del reale significato della locuzione ‘bene pubblico’, e che spesso hanno già al loro attivo campagne e mobilitazioni a tutela di siti e monumenti, azioni di responsabilità civica e ripristino del decoro degli spazi cittadini, progetti di promozione sociale e culturale. Sono già numerosissimi gli esempi in questo senso, di associazioni che riescono a generare redditi localizzati e ad ampliare il pubblico dei fruitori dei beni loro affidati grazie ad una partnership affidabile con le istituzioni per la promozione, la gestione, la riprogettazione di spazi comuni dedicati alla cultura.
Il merito di queste idee di successo è certamente, per la gran parte, dei molti giovani laureati in discipline apparentemente prive di applicazione pratica, che in tempi di crisi e di scarsa occupazione hanno saputo in molti casi inventarsi un nuovo mestiere e soprattutto un nuovo modo di lavorare: in una società in cui l’industria arranca e il mercato del lavoro è fermo, il terzo settore, i freelance, il mondo del no profit sono gli attori di quella che può essere una vera e propria rinascita.
Già il censimento di Federculture del 2012, dal titolo La cultura che vince. Esperienze di successo nella gestione dei beni pubblici, fotografava infatti un’Italia in fermento dal punto di vista della progettazione culturale, con esempi positivi di gestione di beni culturali da parte di soggetti no profit – si pensi all’affidamento, a Napoli, delle catacombe del rione Sanità a una cooperativa sociale, che, oltre ad incrementare il reddito turistico prodotto dal monumento, lo ha ridistribuito in tutto il quartiere –, e con la schedatura di una messe di grandi e piccoli eventi dedicati al cinema, alla musica, alla letteratura e alla lettura, alle arti performative, al fumetto, alla fotografia. Per non dire dell’importanza dell’iniziativa dei cittadini in termini di salvaguardia del nostro patrimonio: si pensi al cosiddetto crowdfunding o mecenatismo diffuso, cioè la donazione di somme anche minime da parte di singoli privati che permettano ad esempio di restituire singole opere d’arte al loro luogo di appartenenza; in questo modo, intorno al patrimonio culturale nascono vere e proprie comunità d’intenti, si creano reti, si rinsaldano i legami, si riconnette il tessuto sociale, con ovvi benefici per la qualità della vita.
Ciò che occorre, però, da parte delle istituzioni, è una reale mobilitazione per attivare una nuova strategia che contempli, accanto a una gestione più efficace e più lungimirante dell’immensa ricchezza artistica, archeologica, paesaggistica di cui disponiamo, anche la ricerca di formule sempre più flessibili ed efficaci che consentano alle imprese sociali di semplificare le procedure, gli iter giuridici, le forme contrattuali con cui proporsi come partner sempre più attivi nella gestione del patrimonio culturale.
Solo un attento ripensamento dell’intero sistema del patrimonio culturale, che ne renda la gestione non solo meno dispendiosa ma anche più innovativa, più creativa, più razionale e maggiormente capace di mettersi al passo con i nuovi media – senza per questo trasformarla nell’ennesima industria votata solo al profitto –, può infatti portare un vero rinnovamento del settore, a livello sia locale sia nazionale.
Dostoevskij, ne L’idiota, fece dire al principe Miškin che la bellezza salverà il mondo, come recita il titolo di questo incontro: ma questo può essere vero solo se si possiedono gli strumenti per comprenderla e renderla disponibile, fruibile ai turisti ma in primo luogo ai cittadini, e in particolare alle nuove generazioni, quelle che più hanno bisogno di leggere e conoscere il valore della tutela dei beni culturali.
Commenti
Posta un commento